I Racconti di Odessa di Izaak Babel’ è la resa letteraria della musica klezmer
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di Mara Giacalone
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“In realtà klezmer è una parola yiddish che viene dall’ebraico keli zémèr, cioè strumento (keli) per la musica e I canti (zémèr). […] Klezmer è una musica dal tempo strappato, una musica a brandelli, una musica in rosso e in bianco, sangue su neve, che ha lo humor e la nostalgia del grande filosofo Charlie Chaplin”. [1]
Nonostante la citazione iniziale, ogg non parliamo di musica bensì di Izaak Babel’ e del suo libbricino Racconti di Odessa ( Bur, 2012), un libbricino molto klezmer. Babel’, di famiglia ebraica, ce lo aveva nel sangue quel ritmo particolarmente salterino che caratterizza questo genere musicale. Nato a Odessa, scrisse I testi presenti nella raccolta tra il 1923 e il 1932 scegliendo proprio come ambientazione la Moldavanka – il quartiere ebraico della città. Odessa, all’epoca, doveva essere un luogo pieno di fascino come tutte le città portuali e quindi piena di vita, di colori, di odori, di lingue che si mescolavano, di etnie… come scrive Rossana Platone nell’introduzione ai Racconti: “all’origine del mito di Odessa c’è quello che la rende unica tra tutte le città russe, la solarità, l’eterogeneità dei suoi abitanti […]. terra ricca di promesse e di commercio, attira da ogni parte gente operosa e solerte in cerca di fortuna, e una folla di speculatori, gabbamondo, contrabbandieri, lestofanti a caccia di facili guadagni”. Ed è proprio questa umanità un po’ bassa che troviamo protagonista dei racconti. Un’umanità imperfetta con vizi e debolezze. Si potrebbe anche dire un’umanità violenta, arrogante, che vive di soprusi e nefandezze… ed è vero, perchè Benja Krik – il protagonista per eccellenza -, il Re della Moldavanka lo potremmo definire quasi un mafioso, il capo della criminalità del quartiere. Eppure Babel’ compie come una magia e tutto quello che fa Krik sembra buono. Babel’ riesce a tramutare la pietra in oro. Non prende in giro il lettore spacciando le nefandezze di Krik per azioni caritatevoli, ma il modo in cui le racconta le fa sembrare così normali, così quotidiane che chi tiene in mano il libro e si immerge in quel clima particolare ne esce stranito e quasi simpatizzante per questo semi Robin-hood ucraino. La banalità del male. Quasi.
Le storie di Babel’ hanno un qualcosa di biblico. Hanno quel sapore – e sapere – delle storie antiche, di quelle che si tramandano da sempre di generazione in generazione. Sanno quasi di mito. Si dipingono della grandezza delle storie della Tradizione pur narrando le imprese di personaggi e luoghi “bassi”. Forse la chiave sta proprio in questo, nel saper magistralmente raccontare la Vita – con la V maiuscola perchè raccoglie tutto l’orrore stupefacente della quotidianità – facendola sembrare una leggenda. Non usa toni aulici, si limita a narrare come farebbe un cantastorie. Nel raccontare l’ascesa di Benja, c’è quel tramandare le imprese e le gesta di antichi paladini:
“Reb Ar’e-Lejb, dissi al vecchio, parliamo di Benja Krik. Parliamo del suo fulmino inizio e della sua terribile fine. […] Ma perché solo Benja Krik è salito in cima alla scala di corda, mentre tutti gli altri sono rimassi in basso, sospesi sugli scalini pericolanti?” […] “Ora sapete tutto. Sapete chi per primo ha pronunciato la parola Re. È stato Mojsejka. Sapete perché non chiamò così né l’orbo Grač, né l’indiavolato Kol’ka. Sapete tutto.”
Benja è dunque il Re. E come tutti i re, come tutti i paladini, anche a lui è dedicato un ciclo speciale. Degli otto racconti presenti, i primi quattro lo vedono protagonista andando a creare intorno a lui una sorta di aura magica che lo innalza a ruolo effettivo di Re. Tutti nella Moldavanka parlano di lui e nutrono rispetto nei suoi confronti. Anche negli altri racconti, in un modo o nell’altro si torna a lui. È sempre a lui che riconducono tutte le storie. Come con i patriarchi.
Babel’ in pochissime pagine e con uno stile scarno, sicuro e dritto crea una specie di olimpo dei malfattori della Moldavanka. I personaggi a volte parlano in modo enigmatico. Le storie, a volte, assomigliano quasi a delle parabole. Ma senza insegnamento. Babel’ non si mette un gradino più in alto del lettore: il suo scopo non è insegnare, direi che piuttosto è… scrivere e divertirsi scrivendo. E ci riesce. Il lettore ride. Con un’attenzione, però, perché Babel’ non si fa beffe di quei poveracci, no. Babel’ descrive da vicino come qualcuno che sa bene cosa sia quel tipo di ambiente ma contemporaneamente con quel distacco necessario a far sì che il lettore non senta la finzione narrativa: il lettore si deve sentire parte della collettività, capire la sua sofferenza, farsi carico delle stesse tragicità, condividerne il destino e proprio per questo essere in grado di sorridere. È solo nello spazio che lascia chi scrive che il lettore può intrufolarsi e poi svignarsela quando vuole da Odessa ( o da qualsiasi altro spazio letterario).
Babel’ è quel sangue sulla neve di cui sopra. È acuto e senza veli. Stupisce con delicatezza, segna sbalordendo senza però far sì che il suono rimbombi troppo – come uno sparo attutito dal bianco manto invernale. Babel’ è klezmer perché restituisce il caos della vita. I suoi personaggi sono klezmer. Non perché innalzino canti al signore ma perché mossi dalle passioni, presi nel vortice del vivere. Che non vuol dire solo il Bene, il Bello. Un vortice che prende anche il Male e il Brutto. Ma proprio per questo veritiero. Chi ha in mente le sonorità klezmer, lo sente il parallelismo. Sente il sangue che scorre e il battito del cuore di Benja. Quel battito convulso così tipico di uno stile musicale che sa di rosso, di carne viva, di passione. È la musica giusta per una città portuale dove tutti sono di corsa con il vento tra i capelli e le urla di chi scarica merci. È la musica di Babel’ e della sua scrittura che si innalza e si gonfia di storie per portare in alto anche chi di norma viene recluso.
“Ha un che di dionisiaco, il Klezmer.
[…] il klezmer è una metafora del diritto a rimettere in discussione i valori, a capovolgerli, all’onestà dell’essere umano turbato dalle passioni, dai dubbi, dalle negazioni, e sempre mosso dalla grandezza dei suoi momenti di esaltazioni, dall’aleatorietà e dalla meraviglia degli incontri, estemporanei come la musica.”[2]
[1] Marc-Alain Ouaknin – prefazione a “Klezmer” di J. Sfar, Rizzoli Lizard 2010
[2] Marc-Alain Ouaknin – prefazione a “Klezmer” di J. Sfar, Rizzoli Lizard 2010