Jacek Hugo-Bader: storie di ordinaria URSS

URSS

L’autore di Febbre bianca ha dato alle stampe un’altra raccolta di reportage sulla vecchia URSS, un nuovo viaggio al cuore di un impero che non esiste più – forse.

di Salvatore Greco

Tra le firme del reportage polacco quella di Jacek Hugo-Bader è oggi una delle più note, e la sua voce attenta e critica parla dalle pagine della Gazeta Wyborcza da ormai più di venticinque anni. Gli interessi di Hugo-Bader sono piuttosto eclettici e di certo non gli manca il coraggio di tuffarsi all’interno delle storie, come dimostra il fatto che si sia recato alla marcia dell’11 novembre organizzata dai movimenti nazionalisti abilmente camuffato da immigrato africano per raccontare dalla prospettiva di una vittima il dilagante razzismo dell’ultradestra polacca. Il suo interesse più vero e sincero resta, tuttavia, il vasto e caleidoscopico mondo post-sovietico, l’universo drammatico di quella che fu l’URSS a cui ha dedicato due libri entrambi editi da Czarne: Biała Gorączka nel 2009 (uscito in Italia per Keller come Febbre bianca) e nel 2010 –ma recentemente ristampato- il più vasto W rajskiej dolinie wśród zielska (Sulla collina celeste in mezzo all’erba) ancora inedito in italiano e che presentiamo oggi.

W rajskiej dolinie wśród zielska è una raccolta di reportage per la verità piuttosto datati, tutti usciti sulle pagine di Gazeta Wyborcza tra il 1997 e il 2001: esperienze fatte da Hugo-Bader in luoghi simbolo della vecchia URSS e delle sue trasformazioni, nella Russia europea, in Cecenia, in Asia centrale e in Crimea, anche se molti anni prima che la penisola diventasse teatro dei recenti stravolgimenti geopolitici. Leggerli oggi, per certi versi, crea una forma di insoddisfazione nel trovarsi di fronte a cronache di tempi ormai superati, eppure vedere oggi la Russia, e tutto il mondo ex URSS, attraverso gli occhi di un cittadino polacco nei tardi anni Novanta, è un modo estremamente interessante di approcciare e capire quella parte di mondo, una missione a cui il grande reportage è chiamato.

URSSSembra esserci una tesi che Hugo-Bader cerca di dimostrare o perlomeno si sforza di far venire fuori, e cioè che la fine dell’URSS e la liberazione antropologica dall’homo sovieticus siano state vissute con sollievo e respiro. Spesso però, e non senza un certo rammarico dell’autore, non è così. A partire dal primo reportage che apre questo libro-raccolta, quello che racconta dell’incontro tra Hugo-Bader e Michail Timofeevič Kalašnikov, inventore dell’omonimo fucile mitragliatore – il più diffuso al mondo e il più facile da maneggiare. Trovo questo primo reportage particolarmente forte e significativo nel definire lo stile di Hugo-Bader e l’anima di un libro che, vista la sua natura di raccolta, ha relativamente pochi elementi comuni fra i suoi capitoli. Quella che l’autore mette in scena con l’anziano  Kalašnikov (deceduto poi nel 2013)è ben lungi da un’intervista neutra, si manifesta piuttosto come duello dialettico vivace, a volte amaro, decisamente senza peli sulla lingua. Rispetto alla scuola di reportage più canonica che vorrebbe l’annullamento dell’autore di fronte alla realtà raccontata, qui siamo di fronte a una realtà che si crea su opposti fronti.

“Parliamo della guerra, Michail Timofeevič” – provo a spostare l’argomento su un tema caro ai veterani.

“Della guerra? Al diavolo la guerra!”

“Lei venne chiamato alle armi nel 1938. Era un carrista. Su quale fronte? È stato in Polonia nel 1939?”

“Dove? In Polonia…?” – di nuovo non ci sente.

“Il vostro esercito ha invaso la Polonia!” – insisto.

“Un momento, un momento… C’è una città in Polonia…come si chiama… Stryj!”

“Era Polonia prima della guerra, oggi è in Ucraina”

“Ah ecco, io ho prestato servizio lì”

“E ha combattuto contro i polacchi?”

“Si figuri se so chi c’era lì. Ero un giovane soldato semplice. Avevo vent’anni. Mi ricordo che c’erano delle belle ragazze, ma non ci era permesso uscire dalla caserma”

“E il motto ‘per la patria, per Stalin!’ per lei aveva valore? Ci credeva? Lo capiva?”

“Ero un figlio della rivoluzione. In quegli anni mi sembrava un motto meraviglioso, elevato. Può vedere nei vecchi documentari quante folle si muovevano dietro quel motto. Marciavano e piangevano e non solo dei soldatuccoli come me, ma anche i grandi di questo mondo”

Hugo-Bader prova a incalzare Kalašnikov, a trovare in lui colpa, pentimento, indignazione, ma si trova di fronte all’ineffabile e inscalfibile fatalismo russo, ancora più forte in chi ha vissuto la fine dell’URSS, inesorabile, un fatalismo che manda in tilt un figlio di Solidarność come è l’autore. Anche di fronte alla pensione misera che percepisce, l’indignazione di Hugo-Bader è superiore a quella dell’intervistato che si limita a fare spallucce. Questo è il mondo dell’ex-URSS, che farci?

Altrove, tra i vari reportage raccolti nel volume, Hugo-Bader va più a fondo e racconta storie drammatiche con un atteggiamento diverso e meno politico pur senza perdere il suo spirito, come quando approfondisce la vicenda drammatica dei tatari di Crimea, deportati in Asia centrale da Stalin durante la grande fame e tornati con fatica enorme alle proprie case dopo il crollo dell’URSS, oppure quando racconta dall’interno delle sue dinamiche il fenomeno del traffico di oppiacei in Kirghizistan oppure ancora quando va in Cecenia a conoscere il Comitato russo delle Madri di militari, un para-esercito di madri, mogli e fidanzate alla disperata ricerca di tracce dei loro cari coinvolti nella guerra di Cecenia e del cui destino incerto tra la prigionia e la morte non è dato sapere. Sono reportage di grande intensità, dove le ferite lasciate dalla dissoluzione dell’URSS emergono nella realtà soffocata di un totalitarismo lungo decenni, ma anche nei traumi non meno forti portati con sé da un concetto discutibile di democrazia liberale e da una fede nel mercato spesso troppo cieca.

Alla Russia ultraliberista dei nuovi ricchi è dedicato in particolare uno dei reportage, a mio parere, più validi e originali di tutta la raccolta: Zjednoczony Emirat Radziecki, l’Emirato Sovietico Unito, dedicato all’azienda-stato Gazprom. Hugo-Bader in questo caso è proprio il tipo di giornalista che serve: entra sfacciato, sfida, provoca un mondo sospettoso e segreto, ottiene di poter  visitare la città chiusa di Jamburg, roccaforte di Gazprom in confronto a cui le vere città chiuse dei tempi dell’URSS sembrano pallide imitazioni. La penna del reporter racconta un mondoURSS recintato e univoco dove non sembrano vigere leggi di alcuno Stato o anche della normale convivenza umana, bensì le norme aziendali di Gazprom, una città in cui tutto appartiene al colosso dell’energia, dai palazzi agli alberghi alle automobili, dove i contatti con l’esterno sono rigorosamente controllati e dove si arriva –e da cui ci si allontana- solo tramite gli aerei o la ferrovia privata di Gazprom. Servono stomaco e una certa avventatezza per pensare di penetrare quel mondo e Hugo-Bader le ha entrambe, si arrende soltanto di fronte all’impossibilità reale di violare le regole di quel mondo chiuso e dei suoi segreti, impossibilità dettate dal clima di una città isolata dal resto del mondo a 148 km a nord del circolo polare artico.

Dare riscontro di tutti i reportage e di tutti i temi trattati in una raccolta così varia per collocazione, focus e prospettive è impossibile e forse inutile, chi lo vorrà potrà farlo leggendo il libro per ora disponibile, purtroppo, solo nell’originale polacco. Vale però la pena concludere questa presentazione spendendo ancora due parole sul suo URSSautore e sullo stile. Hugo-Bader non si limita a raccontare l’ex URSS, in qualche modo cercando di seguire la traccia lasciata con Imperium dal maestro Kapuściński, cerca di capirla dialogandoci, a volte –come nel caso dell’incontro con Kalašnikov- scontrandocisi per opposta incomprensibilità, a volte cogliendo nel profondo dell’animo disperato di persone e situazioni ferite da una complessità storica e geopolitica semplicemente più grande di loro, probabilmente più grande di chiunque, persino di chi nel tempo l’ha creata, gestita, portata al declino. Non è un viaggio semplice per un cittadino polacco, specialmente per uno come Hugo-Bader direttamente coinvolto nell’opposizione al partito negli anni ’80: il socialismo reale e i suoi residui, l’anima impassibile dell’homo sovieticus e della Russia radicata hanno con la sua esperienza un rapporto impossibile, viaggiano su binari drammaticamente diversi. Ma Hugo-Bader da questo non sembra farsi abbattere, viaggia, chiede, osserva e, persino quando sbatte i piedi o resta allibito crea quello scarto di comprensione tra il suo mondo e il mondo dell’URSS che però per il lettore è motivo di profonda scoperta e causa di riflessione.

W raiskiej dolinie wśród zielska, proprio per questo, è un libro che potrebbe appassionare anche i lettori italiani, abbastanza distanti da cogliere tra le righe di questo quasi dialogo tra sordi. Se un editore nostrano supererà lo scoglio del timore verso quasi quattrocento pagine di storie dalla ex URSS avremo tutti di che guadagnarci.

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