Zbigniew Herbert è uno dei poeti polacchi più amati per la sua resistenza morale e i suoi versi cesellati.
di Salvatore GrecoIl panorama della Polonia a scaffale si va sempre più arricchendo, abbiamo visto nelle scorse settimane alcune interessanti nuove uscite, ma non dimentichiamo che è sempre presidiato da alcuni intramontabili fondamentali, vere e proprie colonne di una biblioteca di letteratura polacca che si rispetti. Uno di questi, di cui ci occuperemo oggi, è l’antologia di Zbigniew Herbert curata da Pietro Marchesani e edita da Adelphi miracolosamente facile da trovare per essere un libro uscito nel 1993, “Rapporto dalla città assediata”.
In tempi di crisi antropologica in cui il rapporto tra capitalismo e modernità, liberalismo e disuguaglianze, inizia a scricchiolare anche in Polonia dove è relativamente giovane, Herbert è un rifugio e un’arma allo stesso tempo. La sua poesia posata e saggia, ma al contempo rabbiosa e resistente, sembra molto rispecchiare il diffuso disagio di chi vive sulla propria pelle le storture reali e anche quelle presunte di una contemporaneità non sempre facile da leggere, persino quando lo si fa servendosi di preziosi intermediari come i poeti.
Non solo l’opera, ma persino la vita stessa di Zbigniew Herbert rappresenta un esempio di dignità e statura morale che lo rendono un personaggio affascinante e apprezzato. Non è questo il luogo deputato a biografismi né tantomeno ad agiografie, ma è bene ricordare il coinvolgimento attivo del galiziano Herbert nella resistenza durante la seconda guerra mondiale, i suoi durissimi esordi letterari negli anni dello stalinismo più duro quando passò dalla collaborazione con alcune riviste di ispirazione cattolica presto stroncate a occupazioni di fortuna per mettere assieme uno stipendio, ivi compresa la donazione di sangue a pagamento, preferibile per lui all’adeguamento agli standard teorici del realismo socialista. Negli anni successivi al XX congresso e al disgelo calato sul blocco socialista potè dedicarsi alla sua poesia, particolarmente debitrice d’ispirazione al mondo della classicità greco-latina ma anche alla cultura europea medievale e rinascimentale, e a vari viaggi fuori dalla Polonia, compresi alcuni in Italia, durante i quali però mai approfittò dell’occasione di trovarsi all’estero per poter svicolare e iniziare una vita da intellettuale dell’emigrazione, che probabilmente gli sarebbe stata più consona e più comoda, probabilmente. E probabilmente ci pensò alla fine degli anni ’70 quando si trattenne tra Italia, Germania e Austria per un soggiorno particolarmente lungo, ma poi tornò nel 1981 – secondo molti incoraggiato e incuriosito dal vento di novità portato sulla scena da Solidarność e vi rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1998, intervallandola con viaggi vari in Europa e negli Stati Uniti.
Più amato di Miłosz, più rispettato di Szymborska, per molti Herbert avrebbe meritato tanto quanto loro (e forse di più) di ricevere il premio Nobel per la letteratura, cesello mancante del già riccamente elaborato catafalco di riconoscimenti conquistati dal poeta di Leopoli. Tanto quanto i suoi “colleghi”, Herbert ha donato alla poesia polacca una capacità universalizzante che ha reso possibile per una lingua poetica, come quella polacca, intimamente espressione di una collettività culturale ben precisa, di essere fruibile da molti, persino da chi con le vicende polacche non ha mai avuto nulla a che spartire. E ha potuto farlo, nello specifico, grazie alla forza dei classici con i quali la sua poesia dialoga continuamente, con rispetto ma senza timori reverenziali. Herbert si confronta con Marco Aurelio, con il re Fortebraccio, osserva Apollo e Nike “che esita” e da questo rapporto privilegiato trae conclusioni sul presente, la storia e il mondo. Ne viene fuori una poesia elegante e monumentale, ma allo stesso tempo capace di ironia e di confronto con livelli di lettura “semplici”. Questa capacità di Herbert di giocare con i livelli diegetici del testo gli fu preziosa anche in funzione critica: negli anni in cui la censura non avrebbe visto di buon occhio le staffilate di uno spirito critico par suo al sistema politico vigente, camuffarle sotto bianche toghe o abbondanti sbuffi vittoriani gli permise una libertà espressiva inusuale.
Nella scelta italiana di liriche pubblicate sotto il titolo Rapporto dalla città assediata, Marchesani ha raccolto e tradotto versi tratti da varie raccolte date alle stampe da Herbert negli anni e dato quindi la possibilità ai lettori di confrontarsi con estratti di più fasi della parabola creativa del poeta. Di particolare importanza il ciclo dedicato al signor Cogito, soggetto lirico di cui Herbert si serve, nei suoi consueti elegantissimi versi, per produrre riflessioni più intime e attuali che male si adatterebbero -stavolta- risciacquate nelle acque della classicità ma di cui il poeta sente l’impellente importanza e che a volte tuonano come parole profetiche o vibranti sermoni laici, oggi anche più di ieri. Leggere Herbert oggi è piacevolissimo grazie alla sua lingua elegante (e magistralmente resa), al copioso panorama di riferimenti culturali e alla capacità propria solo dei grandi poeti di evocare immagini ed emozioni con vibrante potenza. E per chi si avvicina alla cultura polacca è un passo fondamentale, un passo verso lo scaffale della poesia buono anche per i più lirico-scettici.