Su ‘Václav Havel – Un uomo al castello’

Havel

Il libro-intervista di Vaclav Havel, a distanza di anni, è ancora un documento fondamentale per capire la Rivoluzione di Velluto e le sue conseguenze.

di Lorenzo Berardi

Havel na hrad, Havel al castello, era lo slogan scandito dai manifestanti nella Praga dell’89 e la scritta che campeggiava su manifesti affissi ai quattro angoli della capitale cecoslovacca. L’avevano chiamata la ‘Rivoluzione di Velluto’ ed era iniziata a una settimana esatta dalla caduta del Muro di Berlino. In una manciata di giorni questa pacifica, ma veemente protesta di piazza riuscì a rovesciare il regime comunista cecoslovacco aprendo la strada alle elezioni democratiche del giugno ’90. Un voto, quest’ultimo, che confermò il successo di Forum Civico, il movimento fondato dal drammaturgo e poeta Václav Havel, leader carismatico e intellettuale della protesta, divenuto presidente della Repubblica vox populi qualche mese prima. Un uomo che era salito al castello per restarci.

‘Dálkový výslech’ (Interrogatorio a distanza) è il titolo originale di un libro-intervista con Havel realizzato nell’86 dal giornalista ceco Karel Hvížďala tre anni prima della Rivoluzione di Velluto. Un titolo il cui significato profondo viene mantenuto nell’edizione polacca uscita per i tipi di Wydawnictwo Krytyki Politycznej come Zaoczne przesłuchanie, (Udienza extra moenia). Meno felice, forse, la scelta di Disturbing the Peace (Disturbo della quiete pubblica) nella versione inglese, se non altro per richiamare alla mente un omonimo e noto romanzo di Richard Yates. Per quanto riguarda la traduzione italiana, l’editore Santi Quaranta ha scelto di andare sul sicuro puntando su Un uomo al castello e includendo una selezione di fogli di diario e appunti scritti da Havel stesso.

Primavera ’68 – Charta 77 – Inverno ’89

Nell’edizione originale così come in quella inglese – quest’ultima letta da chi scrive – il libro conta duecento pagine scarse. Un formato che rende Dálkový výslech un libricino piacevole da affrontare e sul quale ritornare spesso anche per chi non è appassionato di teatro o politica. La scelta di affidare l’intervista a nastri registrati da Havel, e poi Havelsbobinati da Hvížďala, si rivela vincente. Senza l’assillo del tempo che fugge l’allora drammaturgo e fresco ex prigioniero politico è libero di parlare a ruota libera rievocando aneddoti e dietro le quinte di un cambiamento epocale in corso d’opera. Chi è interessato ai retroscena legati alla nascita di Charta 77 e agli impacciati tentativi draconiani delle autorità comuniste di fronteggiarne l’impatto non resterà deluso. Chi invece è appassionato di storia e cultura troverà vivaci descrizioni del periodo della cosiddetta Primavera di Praga e del fervido clima semi-sotterraneo che agitava la capitale fra palcoscenici di teatri innovativi e le rotative di coraggiose riviste letterarie.

Proprio la straordinaria fertilità culturale e intellettuale della scena cecoslovacca fra gli anni ’60 e ’80 emerge con forze dalle pagine di questo denso libretto. Un panorama di scrittori e artisti che va da Josef Škvorecký a Milòs Forman da Věra Linhartová a Ivan Klima, sino a un Milan Kundera con il quale Havel è raramente tenero. Dálkový výslech offre un affascinante spaccato di un Paese in cui il teatro, i testi della samidzat pubblicati all’estero e la musica rock riuscivano al tempo stesso a esprimere e a convogliare un dissenso vivace e creativo. Un fenomeno intercettato in ritardo e mai realmente compreso dalle autorità comuniste che non avevano idea di come arginarlo. Non a caso, fu proprio l’arresto e il processo ai danni dei componenti del gruppo rock sperimentale dei Plastic People of the Universe a dare il la a Charta 77.

Da una prospettiva polacca e pan-centroesteuropea, Havel ricorda di avere avuto rapporti di collaborazione e amicizia con gli esponenti del Kor (Komitet Obrony Robotników), il Comitato di difesa dei lavoratori che ha preceduto Solidarność. Con il pretesto, da lui stesso ritenuto assurdo, di darsi al trekking sui monti Tatra, il futuro presidente cecoslovacco conferma di avere incontrato più volte sia Adam Michnik che Jacek Kuroń fra il ’77 e il ’79.

A trent’anni di distanza dalla sua pubblicazione e a sei dalla scomparsa di Václav Havel, quest’opera merita oggi di essere riletta per molte ragioni. Innanzitutto perché si tratta di un documento prezioso in giorni in cui gli eventi di quello storico inverno praghese non sembrano più ricordati come meriterebbero in attesa forse del loro trentesimo anniversario. In secondo luogo, perché il suo narratore e protagonista resta ancora oggi un personaggio pressoché unico nel suo genere. Un leader dei diritti civili a suo dire involontario e sicuramente sui generis che – caso forse unico al mondo – è divenuto presidente di due Paesi: dapprima la Cecoslovacchia e poi, in seguito alla separazione consensuale dalla Slovacchia, della neonata Repubblica Ceca.

Un uomo del quale molto si è scritto e altrettanto si è rappresentato sui palchi dei teatri di tutto il mondo. Un personaggio che ha rappresentato un raro esempio di intellettuale divenuto politico di caratura internazionale resistendo a difficili anni di prigionia e lavori forzati. Un periodo, quello trascorso da Havel in carcere lavorando come saldatore e nelle lavanderie sul quale alcune delle pagine più riuscite di Dálkový výslech si soffermano senza vittimismo, anzi con un’ironia e una vitalità insospettabile.

Havel

Un’utopia di breve durata

Quello che colpisce in questo prezioso libro-intervista è assieme il candore e la determinazione di Havel. Da un lato il futuro presidente cecoslovacco e poi ceco non fa mistero di avere attraversato mesi psicologicamente instabili una volta uscito dal carcere o di essersi dimenticato il luogo in cui aveva nascosto importanti documenti. Dall’altro, riesce a trasmettere il clima di eccitazione partecipativa degli anni di Charta 77 in cui intellettuali per loro natura dispersivi e poco inclini a programmare strategie concrete si mossero assieme verso un obiettivo condiviso. Certo, non tutte le premesse innescate da quel periodo sono state mantenute negli anni a venire. Havel ha pian piano smarrito la propria coerenza e la stessa Cecoslovacchia ha cessato presto di esistere, ma Dálkový výslech racconta di un prima, di un’utopia ancora in corso di svolgimento. E lo fa in modo illuminante.

Ciò che sembra mancare oggi alla Repubblica Ceca, ma anche a Slovacchia, Polonia e Ungheria sono proprio figure influenti come Václav Havel e gli altri promotori di Charta 77. I tempi sono cambiati e i fantasmi del comunismo alle spalle, ma a 28 anni di distanza da quel fatidico ’89 non tutto ciò che ha portato il neoliberalismo economico fra Vistola, Danubio e Moldava è da appoggiare acriticamente. Ecco perché si avverte il bisogno di intellettuali pratici e carismatici capaci sia di mettere d’accordo strati trasversali della popolazione che di non suscitare imbarazzi sullo scenario internazionale. In un’Europa centro orientale in cui la cultura e il teatro vengono di nuovo visti da un potere politico che talvolta manifesta tentazioni autoritarie come qualcosa da arginare o imbrigliare leggere dell’esperienza di Havel è quantomai attuale.

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