Uscito per Feltrinelli nel 2016, Il bambino nella neve è un libro di Włodek Goldkorn che esula dai generi e li interseca con il valore della testimonianza.
–
di Lorenzo Berardi
–
‘Il bambino nella neve’ è un libro insolito nel panorama editoriale italiano. A metà strada fra autobiografia, reportage e racconto di viaggio, l’opera si muove fra coordinate che comprendono W.G. Sebald, Eraldo Affinati e autori polacchi come Filip Springer e Henryk Grynberg. E non è un caso che proprio in Polonia il suo autore sia nato e cresciuto, trasferendosi poi in Italia dove è stato per molti anni responsabile culturale del settimanale L’Espresso.
Come si può evincere dal suo cognome, Wlodek Goldkorn è di origine ebraica e ha trascorso l’infanzia fra Katowice e Varsavia, figlio di genitori sopravvissuti alla Shoah. I Goldkorn hanno lasciato la Polonia nel settembre ’68 in seguito alla oggi semi-dimenticata campagna d’antisemitismo scoppiata un anno prima e sancita da un comizio di Władysław Gomułka. Un periodo tumultuoso innescato da conflitti interni al partito comunista (Pzpr) che vide migliaia di ebrei polacchi emigrare alla volta di Israele per sfuggire a un clima fattosi spesso irrespirabile.
‘Il bambino nella neve‘ racconta questo e altri capitoli di storia familiare senza eccessi di vittimismo, ma con lucido raziocinio. Una cifra stilistica confermata anche nel prosieguo dell’opera quando l’autore allarga il campo e il respiro dell’ora completando un proprio ideale percorso. La narrazione è accompagnata e integrata dalle fotografie di Neige De Benedetti capaci di soffermarsi sull’efficace simbolismo dei luoghi attraversati, escludendo alcuna presenza umana.
Un’infanzia slesiana
Goldkorn comincia l’opera con piglio da reporter flâneur tornando nella sua casa d’infanzia a Katowice a mezzo secolo di distanza. Nella oggi dinamica città slesiana l’autore si ritrova smarrito, frastornato dai cambiamenti che hanno trasformato luoghi per lui un tempo quotidiani. L’elegante palazzo costruito appena prima della guerra in stile modernista che l’ha visto bambino e ragazzo è ancora al suo posto, quasi immutato. L’istituto scolastico nel quale Goldkorn ha studiato e che, ricorda: “era frequentato, quasi esclusivamente, da figli di comunisti e da ebrei” perché non vi si insegnava religione emana ancora “la sensazione di benessere che dà una buona istituzione”.
Tuttavia l’autore è cauto e incerto nel muoversi. Sa e si è reso conto che Katowice è cambiata. Una signora che si presenta in modo amichevole nel cortile dove Goldkorn abitava mezzo secolo addietro
“(…) ha un cognome che a Varsavia indicherebbe sicuramente le sue origini ebraiche. Qui in Slesia no. Qui potrebbe essere ebrea, ma anche una slesiana di ascendenze e cognome tedeschi, figlia di un soldato della Wehrmacht”.
E quando viene invitato da un’inquilina del palazzo a visitare il suo appartamento d’infanzia, Wlodek Goldkorn è contento che l’attuale proprietaria rifiuti, dicendosi malata: “non voglio rivedere le stanze dove sono cresciuto,” scrive. Tocca allora alla penna dell’autore iniziare un’avvincente descrizione degli abitanti del palazzo negli anni ’60. Famiglie perlopiù d’origine ebraica e dalle simpatie socialiste, ciascuna di esse con molto da raccontare. Appartamenti arredati con mobili Biedermeier in cui si leggevano i libri di Sholem Aleichem e il quotidiano Trybuna Robotnicza (Tribuna operaia) ascoltando canzoni yiddish. Famiglie che, come i Goldkorn avevano ereditato dai precedenti occupanti tedeschi, posate e piatti con le svastiche e le aquile del Terzo Reich e li adoperavano tranquillamente. Erano anni in cui essere ebrei in Polonia significava appartenere a un microcosmo all’interno del quale il ricordo dei campi di sterminio o del pogrom di Kielce non era un tabù, ma neppure un argomento su cui infervorarsi.
Una (breve) adolescenza varsaviana
Sul periodo trascorso a Varsavia dalla sua famiglia Goldkorn non si sofferma a lungo. Da adolescente curioso qual era, l’autore rievoca i pomeriggi trascorsi al ‘Club internazionale del libro e della stampa’ della capitale dove poteva leggere gratuitamente i quotidiani ‘borghesi’ di tutta Europa per tenersi informato. Una sete di notizie saziata anche dall’arrivo quotidiano a casa Goldkorn di una copia del Biuletyn Specialny della PAP, l’agenzia di stampa polacca. Si trattava di un bollettino di notizie non censurate nel quale scriveva anche Ryszard Kapuściński (che l’autore incontrerà): una fonte di informazione e approfondimento rara e preziosa in quegli anni. C’è poi il bizzarro episodio in cui nella primavera del ’67 il padre gli mostra in gran segreto un volume avvolto in carta di giornale. Si tratta dell’autobiografia di Trockij pubblicata in yiddish e all’epoca è un’opera proibita in Polonia e pericolosa da possedere in qualsiasi lingua. L’autore paragona questo avvenimento a una sorta di iniziazione intellettuale per il quindicenne che era:
“(…) nell’atto di mostrarmi il volume in quella maniera ci fu una sorta di di complicità maschile, un riconoscimento da parte di mio padre del mio ingresso nell’età adulta”.
L’estate di quell’anno sarà anche l’ultima trascorsa da Goldkorn a Varsavia. Di ritorno dal campo estivo organizzato dall’Associazione socioculturale degli ebrei in Polonia sul Baltico, l’adolescente Wlodek percepisce che qualcosa è cambiato. In questa parte del libro va dato atto all’autore di ricordare un episodio scolastico che, nato da un’accusa di furto rivoltagli da una professoressa, fa onore ai suoi compagni di classe incapaci di tollerare l’affronto sino a convincere la docente a scusarsi. Che si trattasse di reale antisemitismo o di malcelata antipatia nei confronti di un alunno altezzoso e pieno di sé (quale Goldkorn ammette di essere stato) conta relativamente. Ciò che colpisce è la reazione collettiva di ragazzi, capaci di dimostrare coraggio in un periodo storico in cui prendere le difese di un compagno di classe ebreo e politicizzato era tutt’altro che incoraggiato.
La situazione precipita in fretta. Il 19 marzo del ’68 i Goldkorn seguono in televisione il comizio in cui Gomułka annuncia che gli ebrei sono liberi di lasciare la Polonia. Sei mesi dopo la famiglia è a bordo del treno Chopin Express diretto da Varsavia a Vienna. Lo scompartimento è stracolmo di fiori donati dagli amici in stazione, ma povero di beni materiali: appena una valigia e cinque dollari a testa, la cifra massima consentita da portare fuori dal Paese. Genitori e figli esibiscono documenti che attestano il loro non essere cittadini polacchi.
L’incontro con Marek Edelman
La seconda parte del libro vede Goldkorn descrivere in maniera un po’ sbrigativa il passaggio da Vienna e l’approdo in Israele. Sulla vita dell’autore in Terra Santa è narrato un episodio emblematico, avvenuto a Ramallah, che si rivelerà decisivo. Come spiega Goldkorn:
“Da Israele me ne andai. Volevo vivere lontano dalla realtà dell’occupazione militare e credevo che l’occupazione non fosse un capriccio della storia, ma la conseguenza intrinseca del modo in cui lo Stato degli ebrei è stato concepito e costruito”.
Una critica che, precisa l’autore, non riguarda mettere in dubbio la legittimità dell’esistenza di Israele, ma l’accusa dell’avere volutamente rimosso il fatto che il luogo in cui il Paese si trova era abitato da altri: una situazione foriera di conflitto.
In seguito Goldkorn si concentra sull’eredità della memoria visitando quattro luoghi simboli dell’Olocausto perpetrato dai nazisti sul territorio polacco: i campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Bełżec, Sobibór e Treblinka. É questa, forse, la parte più riuscita del libro grazie alla capacità dell’autore di riportare le proprie impressioni senza nascondere o edulcorare il proprio disagio dinnanzi a certi modi superficiali o voyeuristici di commemorare il passato avvicinando le masse all’orrore. Goldkorn cita gli scritti di Tadeusz Borowski, Vassilij Grossman e Primo Levi, ma soprattutto racconta ciò che vede e avverte intorno a sé.
Il libro si conclude con alcune sommesse note di speranza e riconciliazione. Dapprima, Goldkorn visita il museo Polin di Varsavia e l’antistante monumento dedicato alla rivolta del Ghetto varsaviano guidata da Mordechai Anielewicz e Marek Edelman. Infine rievoca un suo viaggio a Drohobycz, città natale dell’artista e scrittore Bruno Schulz, oggi in territorio ucraino. Se c’è una figura ricorrente e tutelare in questa seconda parte de ‘Il bambino nella neve’ è quella di Marek Edelman. Goldkorn non fa mai mistero di quanto l’incontro con “Marek”, avvenuto in Italia, sia stato importante per lui e riporta numerose conversazioni avvenute con Edelman fra cui una avvenuta durante una visita congiunta a Treblinka.
Un libro dalle tre anime
‘Il bambino nella neve’ è tre libri in uno: libro di memorie d’infanzia, reportage giornalistico e riflessioni sul tema della memoria in chiave contemporanea e personale. Queste tre tracce narrative si intersecano spesso, talvolta sovrapponendosi e sfilacciandosi. Ciò nonostante, va detto che alcune parti della saga dei Goldkorn sono rievocati con uno stile degno delle memorie di Gregor von Rezzori, Stefan Zweig ed Elias Canetti, per quanto più conciso e frammentario.
Se si può rivolgere una critica a Goldkorn è quella di non riuscire sempre a fare comunicare in maniera efficace i tre filoni della sua opera. Se la transizione dalla visita al Polin di Varsavia al viaggio nella Drohobycz di Bruno Schulz è armonica, altrove ciò non accade. L’affascinante zia Itka – una figura centrale nelle prime pagine del libro – è abbandonata dalla narrazione in maniera brusca. La stessa zia Chaitele dalla cui straziante vicenda personale deriva il titolo dell’opera resta, purtroppo, una figura di contorno, quasi che Goldkorn non abbia voluto (o potuto) raccontarci altro.
L’autore ci tiene all’oscuro di cosa sia accaduto ai suoi genitori e familiari in Israele e di come sia avvenuta la sua personale transizione fra l’Europa e il Medio Oriente. Inoltre, la scelta di Wlodek Goldkorn di approdare in Italia appare del tutto estemporanea. L’autore non la motiva, ma descrive un singolo significativo episodio per illustrare il motivo che lo ha convinto a non trasferirsi in Germania. E, duole dirlo, ma l’avvenimento in questione assomiglia a un cliché letterario.
Appunti stilistici che non scalfiscono comunque i pregi di questo libro. Le riflessioni fatte da Goldkorn in visita ai campi di sterminio nazisti in Polonia, ad esempio, sono toccanti e profonde, mature e mai banali. Nel caso di Bełżec, Sobibór e Treblinka il contrasto fra il male assoluto che questi luoghi sono stati e la tranquillità bucolica che li circonda ora è descritto alla perfezione. Diverso il caso di Auschwitz-Birkenau dove Goldkorn è preda di un disagio legato alla sua storia familiare acuito dalla mercificazione del dolore presente in questo luogo divenuto simbolo della Shoah. È qui che l’autore di distanzia dal “museo degli orrori” scelto per ricordare l’eccidio di centinaia di migliaia d’ebrei e avverte ostilità in chi incontra. Al contrario, Goldkorn apprezza sia il memoriale di Bełżec per la sua ”potenza espressiva dei simboli” che l’esposizione permanente del museo Polin con i suoi richiami alla modernità e alla cultura yiddish.
“Il bambino nella neve” è un’opera difficile da catalogare; non a caso Feltrinelli l’ha pubblicata all’interno della sua collana ‘Varia’ in un pot pourri di titoli che comprende gli psicoproverbi di Alejandro Jodorowsky, i testi delle canzoni di Bob Dylan e la filosofia secondo Andy Warhol. Tuttavia, questo libro sa rendersi necessario e trae forza proprio dalla sua inconsueta commistione di generi e dal variegato background culturale del suo autore. L’opera fa risaltare capitoli di una storia familiare che meritava di essere raccontata e, al tempo stesso, li inserisce in un periodo storico – quello degli anni ’60 in Polonia – poco conosciuto in Italia. Lo sguardo severo e disilluso rivolto ai luoghi simbolo della Shoah così come ai monumenti vecchi e nuovi dell’Olocausto offre una prospettiva della memoria che porta a riflettere in modo autonomo. Non era facile riuscirci.