Galizia, Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa

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Diario intimo, reportage, storia ragionata. Dentro Galizia di Robert Pollack c’è tutto questo, omaggio a una Mitteleuropa intima e collettiva che si dispiega con parole sapienti.

di Roberto Reale

Galizia.

Non quella nel nord-ovest della Spagna, affacciata sull’oceano.

L’altra.

Quella circondata da ogni parte dalle terre e dagli uomini. Quel baricentro geografico e simbolico della Mitteleuropa che la storia ha cancellato, ma a cui tutte le storie rimandano; quell’Urheimat, quella casa-grembo smarrita per sempre, quel referente di un’appartenenza che si è depositata sul fondo del nostro subcosciente collettivo e continuamente orienta il nostro gusto e i nostri passi.

Incarnazione delle metafore inventate per alludere al centro generativo dell’identità mitteleuropea, dalla Kakania di Robert Musil all’Hotel Savoy di Joseph Roth, scrive Enrico Arosio (Viaggio immaginario nella Galizia che non c’è di Martin Pollack, in pagina99, 14 marzo 2017), questa Galizia è anche un concentratore della memoria, che laggiù vi si inabissa in un freudiano Nabel des Traums, sedotta dalla inaudita adiacenza di forme del vivere in apparenza incompatibili: la modernità fin de siècle dei teatri e delle ferrovie e l’arcaica organizzazione dei villaggi huzuli; la diaspora giudaica incarnata negli shtetlekh, i piccoli agglomerati aschenaziti spazzati via a migliaia e migliaia nella Shoah, e la shtot (Stadt in tedesco), ossia la grande città cosmopolita come L’viv e Černivci; la tensione centripeta dell’ordine asburgico e l’irredentismo della Bucovina dell’Ucraina della Polonia che trascegliendo le parti smembrano e condannano il tutto.

Terra di confine come lo sono, in altro senso, le sponde del Mediterraneo, non è possibile raccontare la Galizia se non attraverso un viaggio, che poi è anche un nostos, un ritorno, nel tempo e nello spazio. Il manuale di storia ci informa che il Regno di Galizia e Lodomiria (Królestwo Galicji i Lodomerii, alias Königreich Galizien und Lodomerien) fu “una divisione amministrativa esistente dal 1772 al 1918 sotto la Monarchia Asburgica del Sacro Romano Impero, poi dell’Impero austriaco ed infine dell’Impero austro-ungarico sino alla caduta di quest’ultimo al termine della prima guerra mondiale. La sua capitale era Leopoli.” (Wikipedia, L’enciclopedia libera).

Un approccio diverso è evidentemente necessario. Occorre scrivere qualcosa che sia insieme “libro di viaggio, trattato, omaggio poetico e filosofico, reportage, saggio e cronaca, resoconto di un mondo scomparso, gioco letterario, romanzo documentario, portolano per una terra senza mari” (Claudio Magris). Ci prova allora Martin Pollack, austriaco, classe 1944.

Giornalista e scrittore nonché polonista di statura internazionale (Österreichische Gesellschaft für Literatur, sub voce), Pollack è il figlio illegittimo dello Sturmbannführer delle SS Gerhard Bast (Henryk M. Broder, Der schneidige Gerd, in Der Spiegel, 20 settembre 2004). Eredità dolorosa con cui bisogna fare i conti, ed è naturale che Pollack cerchi nella memoria e nella costruzione ideologica della Mitteleuropa le ragioni della propria “incolpevole colpa”. Lo fa esplicitamente nella biografia-confessione Der Tote im Bunker (trad. it. Il morto nel bunker, Bollati Boringhieri, 2007); lo fa ancora e ancora attraverso romanzi e saggi che si situano tra la storiografia e la mitografia, cercando di raccogliere “frammenti di senso” attraverso l’esplorazione di percorsi in un mondo da cui la linearità è bandita.

Fino a marzo di quest’anno Galizia era disponibile soltanto nell’originale tedesco (Nach Galizien. Von Chassiden, Huzulen, Polen u. Ruthenern. Eine imaginäre Reise durch die verschwundene Welt Ostgaliziens und der Bukowina, Edition Christian Brandstätter, Wien, 1984; nuova ed. Galizien. eine Reise durch die verschwundene Welt Ostgaliziens und der Bukowina, Insel Verlag, Frankfurt am Main 2001) e nella traduzione polacca di Andrzej Kopacki (Po Galicji. O chasydach, Hucułach, Polakach i Rusinach. Imaginacyjna podróż po Galicji Wschodniej i Bukowinie, czyli wyprawa w świat, którego nie ma, Wydawnictwo Czarne, 2007). Quest’ultima, peraltro, non si è mai guadagnata più che un interesse circoscritto: forse per l’ingiusta ostilità che circonda in Polonia la figura di Pollack (Jacek Czaputowicz, Polska Pollacka, in Do Rzeczy, n. 27/2016; adattamento inglese Martin Pollack’s skewed depiction of Poland, in Poland, 7 luglio 2016), il quale non ha fatto mistero di non approvare certe scelte di stampo conservatore nella recente politica polacca (Polen: Das Freund-Feind-Schema, in Der Standard, 1 maggio 2016); forse per il rapporto problematico di una nazione omologante e a tratti sciovinista con le fratture profonde della propria storia, con le tentazioni di un passato estremamente plurale e ancora troppo vicino; forse, infine, per il bruciare a vivo della ferita narcisistica inferta con la perdita dei territori orientali, di cui la Galizia è simbolo per eccellenza (cfr. HERITO, n. 21, 2015; nonché i materiali della mostra itinerante Mit Galicji/Mythos Galizien, ospitata al MCK di Cracovia dal 10 ottobre 2014 all’8 marzo 2015, e al Wien Museum Karlsplatz, dal 26 marzo 2015 al 30 agosto 2015).

GaliziaGrazie a una felice iniziativa di Keller Editore, il lettore italiano può oggi godere di una corretta traduzione di Galizia per la penna di Fabio Cremonesi, con 32 tavole fuori testo e uno scritto di Claudio Magris. Dentro questo libro c’è un mondo colto attraverso cauti segnali: uno sguardo scambiato tra viandanti, l’inarcarsi di una via, l’ergersi improvviso di una stazione in mezzo alla quiete; ci si immagina il parlare sommesso al mercato; il miscuglio incredibile di popoli: polacchi, ucraini, tedeschi, ungheresi, ebrei, slovacchi, armeni, romeni, ruteni, huzuli, rom, tutti insieme infilati dentro “un crogiolo in cui ci si fonde e ci si scinde, un alambicco che crea e può distruggere” (C. Magris). Come la Galizia estetizzante dei Galizische Geschichten di Leopold von Sacher-Masoch (trad. it. Racconti di Galizia, Edizioni dell’Altana, Roma, 1997), come quella luogo-della-crisi degli Opowieści galicyjskie di Andrzej Stasiuk; così la Galizia di Pollack, la “patria dei senza patria”, la “terra ricca di povera gente” (Edward Goldstein, Book Review: ‘Nach Galizien’, by Martin Pollack, in The Galitzianer, vol. 9, n. 4, agosto 2002), pullula di riferimenti eterodiretti.

E non soltanto perché tra il 1881 e il 1910 più di un quarto degli ebrei dalla Galizia si recò negli Stati Uniti (M. Pollack, Kaiser von Amerika. Die große Flucht aus Galizien, Zsolnay, Wien, 2010): la città di Drohobyč, in una paradossale inversione dei rapporti giustificata dai suoi pozzi di petrolio, si merita l’appellativo di Pennsylvania della Galizia (per inciso, è da notare che Pollack preferisce per i toponimi la forma polacca all’ucraina o romena e perfino alla tedesca; apprezzabile invece nella trad. italiana la scelta di aggiornarli alla geopolitica contemporanea, latinizzati s’intende quando sono ucraini, com’è per l’appunto il caso di Drohobyč che nell’originale valeva Drohobycz anziché Drohobytsch, in tedesco, o Drohobîci, in romeno. L’eccezione alla regola è, naturalmente, Ľviv). Così “pittoreschi dintorni” di Terebovlja sono la “Svizzera della Galizia”, il villaggio di Busk è la “Venezia della Galizia”.

E mentre ci si muove “al margine, sapendo che tutto è almeno anche margine” (C. Magris), ci si inoltra tuttavia nel cuore di un mondo scomparso, esplorandone i recessi attraverso un’analisi che è contemporaneamente l’allestimento di un gabinetto anatomico, una raccolta di lacerti. A Nowy Sącz, ai confini occidentali della Galizia, c’è oggi un museo all’aperto, un parco, che raccoglie esemplari autentici di edifici tradizionali di svariate tipologie e destinazioni d’uso, raccolti po całej Polsce e radunati in pochi acri. È così il viaggio attraverso la Galizia, dove i luoghi si snodano in un percorso solo in superficie erratico, ma che in realtà è solo un lungo corteggiamento della capitale, un gioco paziente di preliminari.

E i dettagli topografici si vanno sfumando, mentre la narrazione assume a poco a poco i contorni del mito. Così, se a Przemyśl, “centro del mondo” e inizio del viaggio, ci colpisce una icastica descrizione delle colline “sulla riva destra del fiume San” e degli edifici che vi “giacciono come grosse scatole grigie”; se a Stryj incontriamo uscendo dalla stazione “un curato viale fiancheggiato da castagni e tigli” che conduce in città; se uscendo da Ivano-Frankivs’k (la vecchia Stanislau) il tracciato ferroviario subisce curiose metamorfosi attraversando la “terra degli huzuli”, quel “misterioso popolo di montagna in cui alcuni ravvisavano i resti slavizzati di Sciti e Goti”; se a Černivci l’autore si aggrappa alla realtà dettagliando curva dopo curva il tragitto del tram; ebbene, a L’viv ormai il mito erompe travolgendo quel residuo di principio di realtà fatto di orari dei treni e osservazioni antropologiche (e vite di poeti, e descrizioni di botteghe…).

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A L’viv, “la capitale del regno di Galizia e Lodomiria”, tocca l’ultimo capitolo; il massimo onore, secondo il cerimoniale dei cortei e dei riti funerari. Ľviv, Lemberg, Lwów, Leopoli. La città ha molti nomi, molti volti. Tutti i percorsi vi terminano, tutti i treni vi fanno capolinea in una delle tante stazioni cittadine. Nella “piccola Vienna” (il gioco di specchi non si interrompe mai) hanno sede le autorità civili, quelle di una moltitudine di confessioni religiose, un’università e un politecnico, “quattro licei polacchi, uno tedesco e uno ruteno” più uno ebraico “istituito dopo la Prima guerra mondiale”. La precisione dei dettagli non basta però a decidere a chi appartenga la città, se ai polacchi o ai ruteni; né è sufficiente esaminarne l’aspetto esteriore, la topografia urbana. Occorre andare in profondità, entrare nelle case di ucraini ed ebrei, snidare dalle latebre della memoria il ricordo dei caffè e dei teatri, rintracciare le vite di personaggi più o meno illustri, provarsi a definire la lwowszczyzna, la natura intima di L’viv, di cui nulla è più sfuggente. Impresa disperata: la capitale non è polacca o rutena o austriaca o ebraica; essa si ribella alle etichette e dà fondo ad un caleidoscopio di identità, geografiche storiche antropologiche letterarie.

L’ambiguità può stordire. Riprendiamo il tram, torniamo alla stazione il cui nuovo edificio “fu costruito dall’architetto polacco Sadłowski”, sommergiamo il nostro smarrimento sotto una cascata di dettagli pratici, da guida turistica, rassicuranti. Diamo un ultimo sguardo ai “venditori con i cesti di vimini pieni di beigeln”, agli strilloni adolescenti, ai contadini ruteni, agli huzuli “nei pantaloni rosso vivace con dei sacchi di lino pieni di oggetti in legno intagliato, piatti, cucchiai, cassettine intarsiate”, ai “proprietari terrieri polacchi con gli stivaloni”, ai “viaggiatori russi con le pellicce ingombranti”, agli “ufficiali dei diversi corpi”. Concediamoci un “ultimo sguardo sul crogiolo di popoli della Galizia orientale”, quella Galizia che finisce nell’atrio della stazione. Quell’Halb-Asien, semi-Asia come la chiama sprezzante il romanziere Karl Emil Franzos (galiziano anche lui, naturalmente).

Wake up, Alice dear!—il sogno è finito, la razionalità riprende il suo dominio: “nella sala d’attesa della seconda classe inizia l’Occidente”.

Der Zug nach Wien über Krakau, Oderberg und Prerau fährt um achtzehn Uhr zehn ab. / Pociąg do Wiednia przez Kraków, Oderberg i Prerau odjeżdża o osiemnastej dziesięć. / Il treno per Vienna via Cracovia, Bohumín e Přerov parte alle diciotto e dieci.

Così si conclude, nella sua triplice ipostasi, Galizia di Martin Pollack. Ma non per questo smettono di intrecciarsi i percorsi e i nomi, ora polacchi ora tedeschi ora cechi. Non per questo rinuncia ad emergere un ulteriore altrove, un andersh che è sì asseverazione simbolica di una sudditanza tra la capitale galiziana, L’viv, e Vienna, ombelico del mondo asburgico; tra ambiguità e ordine, tra mito e ragione; ma che è anche espressione di una mutua dipendenza tra le due città. “Ci sono treni”, scrive Federico Pace in La libertà viaggia in treno (Laterza, 2016), “che mettono in contatto città contrapposte da tutto ma che non possono fare a meno l’una dell’altra. La meta e la partenza, nel caso di questi convogli così speciali, sono l’una lo specchio dell’altra. L’una il completamento dell’altra.”

E il viaggio di Martin Pollack nella Galizia, laboratorio del mito, centro e limite e memoria della Mitteleuropa, ampliamento dei confini del vissuto, non può non proseguire.

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