Da piatto accolto con scetticismo a protagonista dello street-food, da simbolo multiculturale a beniamino dei nazionalisti, il kebab in Polonia conosce molte sfumature.
–
di Salvatore Greco
–
In vista dell’arrivo di mio fratello a Varsavia, un paio d’anni fa, ho chiesto a un conoscente nato e cresciuto qui di indicarmi qualche buon ristorante in città dove poter mangiare qualcosa di tipico. La sua risposta è stata: “nessun problema, preferisci vietnamita o kebab?”. L’ha detto ridendo, e ho riso anch’io, perché era chiaramente una battuta, ma con un fondo di verità difficile da omettere. Al di fuori dagli stretti confini del centro storico, trovare un ristorante di cucina polacca tradizionale a Varsavia non è un’impresa facilissima. Di ristoranti di cucina vietnamita e locali che servono kebab invece se ne possono trovare a decine, praticamente in ogni angolo della capitale polacca.
Se la grande presenza di ristoranti vietnamiti è legata alla lunga storia diplomatica tra il Vietnam e i Paesi dell’ex Comintern, quella del kebab in Polonia è una vicenda diversa, più recente, ricca di sfumature e costruita anche su una stridente contraddizione. Come ha fatto il kebab, pietanza tipica del mondo mediorientale e simbolo delle comunità turche e arabe in Europa, ad avere così successo in un Paese mediamente molto legato a valori e simboli tradizionali come è la Polonia?
Se il concetto di ‘successo’ può essere mutevole e opinabile, proviamo a dare qualche numero. Nel suo ultimo reportage Kebabistan, dedicato proprio al fenomeno della cultura del kebab in Polonia, il giornalista di Krytyka Polityczna Krystian Nowak riporta delle statistiche di mercato (fonte OBOP) secondo le quali il kebab è la prima scelta per un pasto fuori casa per il 45% dei polacchi, e l’industria legata al kebab produce un giro d’affari di 2,5 miliardi di złoty, pari a circa 630 milioni di euro. Una simile popolarità non sarebbe possibile se fosse limitata all’utenza che più facilmente immaginiamo legata al kebab, ovvero i giovani maschi con modesta disponibilità economica. Anche solo passando davanti ai vari locali di kebab di Varsavia che vendono direttamente su strada, è facile vede e tra la gente in fila in attesa del cibo ordinato l’umanità più varia: uomini, donne, bambini, anziani, giovani coppie con il passeggino, operai in pausa dalla rifinitura del manto stradale, yuppie in completo nero che si toccano nervosamente l’auricolare in bluetooth.
I motivi di questa varietà sono anch’essi vari. Di certo, una delle cause alla base della grande popolarità del kebab è il rapporto invidiabile tra prezzo e senso di sazietà: tra i vari tipi di street food, o le alternative da consumare in loco, una focaccia ripiena di carne arrosto al costo solitamente inferiore ai 5 euro è oggettivamente una scelta soddisfacente. Lo è evidentemente anche al punto di poter ignorare, o di farlo parzialmente, il fatto che a prepararlo sia stato un immigrato siriano, afghano, azero o bengalese seguendo una ricetta che appartiene da secoli al mondo arabo e turco.
Sulla ricetta, per altro, ci sarebbe anche un bel po’ da dire. E può farlo prima di tutti Ahmet Muhammed Kazkondu, un cittadino turco che ancora negli anni Novanta era un abitante dei marciapiedi di Varsavia e che oggi i giornali polacchi cercano per delle interviste in cui lo chiamano, senza ironia, “il re del kebab”. Perché Kazkondu è stato, con tutta probabilità, il gestore del primo locale per kebab di Varsavia e di tutta la Polonia. Aperto nei sotterranei della stazione centrale, dove spesso Kazkondu si rifugiava per dormire e dove ha iniziato a lavorare e racimolare qualche soldo, il suo primo locale di kebab è stato un colossale fallimento. La ricetta tipica turca, che prevede la carne condita con origano, pomodoro, pepe, aglio e cipolla non convinceva i polacchi a fermarsi, nemmeno davanti ad assaggi gratis e prezzi bassi. Un insuccesso pagato con il fallimento. Fallimento che però non ha portato Kazkondu ad arrendersi, ma l’ha convinto a riprovare. In una narrazione che forse un po’ troppo sa di imprenditore brillante, racconta di avere osservato la cucina dei locali vietnamiti suoi vicini di posto e di come lì i gestori aggiungessero ai piatti una grande quantità di crauti. Da lì, Kazkondu ha capito che anche il kebab, per poter essere apprezzato, doveva un po’ adattarsi. La cucina polacca, come tutte quelle di Paesi freddi ricca di pietanze molto caloriche e di verdure marinate, non aveva preparato i suoi avventori ai gusti più asciutti e speziati della tradizione mediterranea. Qualcosa doveva cambiare, e Kazkondu l’ha cambiata. Aggiungendo le salse per ammorbidire la carne e sostituendo le verdure fresche con quelle marinate. Un successo che l’ha portato a gestire anche una piccola rete di locali di kebab e poi a fondare la MBM Meat Food, azienda di produzione di kebab che oggi è il più grande fornitore di locali di kebab indipendenti in tutta la Polonia.
La storia di Kazkondu è una storia di adattamento che spiega bene il successo di una pietanza per niente vicina al gusto dominante in Polonia e che ha finito per essere, con il tempo, assai meno esotica di quanto potesse esserlo all’inizio. Di certo di esotico resta il nome, molto più diffuso nella variante araba kebab che in quella turca kebap che invece ha avuto un grande successo in Germania, e la composizione etnica di chi in questi locali di kebab ci lavora e di chi li gestisce. È oggettivamente difficile, tanto quanto lo è in Italia, trovare un locale di kebab in Polonia dove il personale di cucina non venga dal medio oriente. In fondo non c’è nulla di strano che gli ambasciatori di una cucina in un Paese straniero siano coloro i quali quella cucina la praticano e la conoscono nel proprio, ma in Polonia a volte la cosa può avere un sapore diverso.
L’11 novembre di ogni anno, la Polonia festeggia l’anniversario dell’indipendenza, ricordando quel giorno del 1918 in cui il Paese tornò ad avere dignità politica e confini sulle mappe dopo 123 anni di spartizioni. È un evento, quello delll’11 novembre, che risveglia emozioni molto varie tra la popolazione, alcune di sano e genuino patriottismo, altre mosse da un nazionalismo violento e tossico che trova la sua realizzazione nella Marsz Niepodległości, una manifestazione organizzata da anni dai partiti e dalle associazioni della destra nazionalista e che porta in piazza ogni anno decine di migliaia di persone chiamate a ripetere, tra gli altri, slogan palesemente xenofobi e islamofobi.
Sempre all’interno di Kebabistan, Nowak dà voce a numerose storie di cittadini del medio oriente e dell’Asia centrale, arrivati in Polonia per varie strade, con alcuni dei quali che raccontano con estrema sincerità gli attacchi subiti da frange di manifestanti durante l’11 novembre. E sotto la voce attacchi non vanno solo invettive verbali, ma anche il lancio di oggetti, compreso un cestino dei rifiuti incendiato fatto recapitare dentro un locale di kebab di Varsavia, nella centralissima via Marszałkowska, da un manifestante nazionalista particolarmente zelante.
Il rapporto tra certe frange della destra nazionalista polacca e il kebab sarebbe degno di Freud, e come tale è stato spesso e volentieri oggetto di meme e altre forme satiriche del web in Polonia. Nonostante, come abbiamo detto, la composizione sociale di chi consuma come pasto un kebab in Polonia sia piuttosto varia, è altrettanto innegabile il successo che la pietanza ha tra i giovani di sesso maschile, cosa che non esclude affatto la rilevante minoranza di questo frammento sociale che esprime e manifesta idee nazionaliste a tinte xenofobe. Per farla breve: i nazionalisti polacchi che urlano slogan contro l’Islam e chiedono la cacciata dei musulmani dal Paese stravedono per il kebab. A ogni 11 novembre non si contano le foto che immortalano ragazzoni rasati, con croci celtiche tatuate sui polpacci, mentre addentano soddisfatti il prodotto – adattato – di una cultura che disprezzano e che vorrebbero allontanare. Il motivo è quello definito prima: il kebab è e resta il cibo da strada più economico possibile con cui saziarsi, e la relativa facilità con cui lo si può mangiare in piedi e in movimento lo rende anche ideale da consumare andando allo stadio o partecipando a una manifestazione. Che sia un arabo a prepararlo, è un tema che si pone solo in seconda battuta e che solo a volte causa dei problemi.
Problemi che sono stati registrati, per esempio, a Ełk, nella Polonia nord-orientale, a novanta chilometri scarsi dal confine con la Bielorussia. In questa località apparentemente anonima si è registrata la massima tensione socio-politica legata al kebab in Polonia, con una vittima e migliaia di persone in strada. Andiamo per ordine.
Nella notte tra il 31 dicembre 2016 e il primo gennaio 2017, un 21enne di Ełk di nome Daniel entra in un locale di kebab che porta il nome, poco fantasioso ma efficace, di Prince Kebab. Prende dal frigorifero due lattine, ed esce senza pagare. Che sia una bravata giovanile o un furto premeditato è difficile da dire, fatto sta che di fronte al gesto non si fermano né il padrone di Prince Kebab né il cuoco di servizio quella sera, che inseguono Daniel e il suo complice per riavere le lattine. Per tutta risposta, i due ragazzi gettano dei petardi nel locale, causando una seconda reazione da parte dei lavoratori di Prince Kebab. Questa seconda volta, il cuoco esce dal locale impugnando un coltello da cucina con il quale ferisce tre volte Daniel. Le ferite sono gravi, il ragazzo morirà il giorno dopo in ospedale.
Le reazioni della città sono di comprensibile dolore e di meno comprensibile rabbia razzista, che viene cavalcata dalle associazioni di estrema destra locali subito pronte a organizzare sit-in e manifestazioni. Mentre il proprietario tunisino di Prince Kebab è agli arresti, e ci resterà per tre mesi, la sua casa viene data alle fiamme, in città si moltiplicano i piccoli cortei e sit-in di fronte al locale incriminato dove i partecipanti scandiscono slogan che invitano gli immigrati a lasciare la città altrimenti ci penseranno loro a farlo accadere. Le organizzazioni antirazziste di tutta la Polonia preparano una manifestazione, che suscita molto interesse anche in città lontane da Ełk, ma che alla fine viene annullata per evitare scontri con i cortei di estrema destra che già da soli danno parecchie grane alla polizia. La situazione con il tempo si è placata, il processo per omicidio colposo per il cuoco di Prince Kebab è iniziato, ma non si è ancora concluso.
A prescindere dall’esito giudiziario della storia di Daniel, a partire da Ełk la contraddizione negli ambienti nazionalisti si è fatta più difficile da ignorare. Tanto che ha fatto molto rumore mediatico la comparsa, a Lublino, di un locale di kebab apparentemente come tutti gli altri, molto dimesso e ospitato dentro una roulotte. Sono il nome e lo stile, sopra ogni cosa a fare la differenza. A caratteri bianchi e rossi, la roulotte dice di sé “prawdziwy kebab u prawdziwego polaka”, ovvero “kebab autentico da un autentico polacco”. Il titolare di questo esperimento autarchico è diventato straordinariamente popolare, per prima cosa tra i nazionalisti più orgogliosi che non vogliono finanziare attività straniere, ma allo stesso tempo non sembrano pronti a rinunciare al gusto del kebab. In seguito al passaparola che lo ha reso una hit del web, questo “autentico polacco” del kebab è stato raggiunto dalla redazione polacca di Vice di fronte alla quale ha un po’ smontato la narrazione ultranazionalista che gli è stata montata addosso. Jerzy, questo il suo nome, ha raccontato di avere iniziato con un socio siriano e poi di essersi messo in proprio. L’idea del nome gli è venuta in mente pensando a tutti i locali che vantano le origini autenticamente turche, siriane o arabe del loro kebab e si è chiesto perché non fare lo stesso lui, da polacco. Il patriottismo lo applica nella filiera quando può, comprando la carne da allevatori polacchi e i crauti da coltivatori locali mentre su pite e patatine fritte non è sicuro perché gli arrivano surgelate. Nonostante il successo, reale o simbolico, raccolto tra gli ambienti della destra più oltranzista, Jerzy non sembra abbracciarne la filosofia e sostiene che il suo è un kebab polacco, ma che tutti sono invitati a mangiarlo.
Oggi, mentre le ondate migratorie sembrano un tema meno interessante per la Polonia e i nemici dell’ultradestra sono altri, la crescita del mondo del kebab in Polonia non sembra destinata ad arrestarsi. Per capire meglio la capacità del settore di produrre profitto, basti pensare al fatto che i locali di kebab in Polonia non sono, o non soltanto, i piccoli locali indipendenti di modesto arredamento e metratura che possiamo incontrare in Italia, ma hanno prodotto anche due vere e proprie catene dal fatturato decisamente importante e gestite da due imprenditori, il curdo Mustafa Mohammad proprietario del marchio Kebab King e il siriano Ghaze Abdulloh, fondatore dei ristoranti Amrit Kebab che poi hanno cambiato il nome in Amrit Oriental Food. Kebab King, che è un franchising, ha più di cinquanta locali in tutta la Polonia. Amrit si limita a nove locali, tutti a Varsavia, controllati centralmente. Due idee di business diverse, ma entrambe concentrate sull’obiettivo di comunicare qualità, pulizia e uniformità di gusto.
L’idea di creare un marchio riconoscibile, un gusto riconoscibile, e anche di diversificare l’offerta con dolci, menù vegetariani e pietanze tipiche ma diverse dal kebab, è il segnale di come la concezione del kebab in Polonia sia radicalmente cambiata e in continua evoluzione in Polonia, al pari di quanto fatto dai locali di cucina asiatica un decennio fa. Anche il fatto che diverse ragazze e ragazzi polacchi lavorino per Amrit o Kebab King è il frutto di un processo lento che ha (parzialmente) tolto lo stigma sociale a qualcosa che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile o inaccettabile.
Con lentezza, ma senza interruzioni degne di nota, il kebab in Polonia sta subendo una diversificazione sociale e di mercato significativa, con i locali che servono kebab che trovano un posizionamento nei vari segmenti di clientela passando dai meno ai più esigenti. Ancora Nowak in Kebabistan riporta l’opinione diffusa come l’unico motivo per cui il kebab non sfonda tra le proposte di pranzo in ufficio è per via dell’odore intenso e persistente che porta con sé, assieme a un fattore di accettazione sociale che però si sta via via superando.
La praticità con cui una pita ben confezionata si può mangiare anche in piedi e camminando ha una fortuna commerciale incredibile, specie in una città come Varsavia dove i ritmi di lavoro battenti non consentono sempre di potersi fermare a mangiare. Lo hanno capito persino locali diversissimi per natura, stile, posizionamento e scelte di cucina dal mondo del kebab. Come per esempio, la piccola ma fortunata rete Tel Aviv Urban Food, che conta cinque ristoranti a Varsavia e uno a Łódź di cucina mediorientale in chiave rigorosamente vegana e con prezzi e stile mirati a un posizionamento medio-alto. Anche Tel Aviv ha inserito nel suo menù delle pite ripiene di falafel o sostitutivi vegani della carne serviti esattamente come un qualsiasi kebab di strada. Un sintomo, se ne servissero altri, dell’egemonia culturale del kebab in Polonia, ormai vero e proprio piatto nazionale adottivo.