L’hanno chiamato il fantasma di Cracovia o l’assassino elegante. In un libro la storia del serial killer più feroce del Novecento in Polonia
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di Salvatore Greco
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Un giorno di settembre, un uomo di nome Stanisław Łobudziński arriva all’ospedale di Solec a Varsavia a bordo della sua Opel Olympia. Ha una ferita alla nuca che gli causa un dolore tremendo e di cui non ricorda l’origine. Lo stupore, suo e dei medici, è grande quando scoprono che nel cranio dell’uomo c’è una pallottola conficcata a un passo dal cervello.
La storia, quasi inevitabilmente, attira l’attenzione della polizia. Anzi, essendo il 1955, della milizia. Chi gli ha sparato? E perché? E come fa Łobudziński a possedere un’auto di fabbricazione occidentale nella Polonia del dopoguerra, chiusa a doppia mandata da ogni contatto con l’estero?
La verità di Pulcinella viene fuori abbastanza velocemente: Łobudziński è un contrabbandiere di piccolo taglio, come ce ne sono in Polonia a centinaia in quegli anni. Nulla di strano, dopotutto. In un Paese in cui non c’è praticamente nulla, il mercato nero scoppia di salute e offre occasioni a tutti quelli che hanno contatti, sfacciataggine e fegato per sfidare le autorità. Così si scopre che Łobudziński è stato a Cracovia con un bel mucchio di dollari americani per comprare degli orologi da poter poi smerciare a Varsavia. Il suo contatto a Cracovia è un uomo mite e galante che sembra conoscere tutti in città. Lo chiamano L’ingegnere. I due uomini passano insieme, tra Cracovia e le montagne di Zakopane, circa una settimana. Il contrabbando non è uno scherzo, Łobudziński lo sa, a volte bisogna aspettare a lungo prima di poter concludere un affare. Persino quando perde la pazienza, gli passa presto, la simpatia dell’Ingegnere è irresistibile e lui si fa trascinare. Fino a quando l’uomo non gli confessa che l’affare è saltato, gli orologi non possono essere consegnati, ma che non potrà restituirgli il denaro. A parziale risarcimento, gli offre la sua vecchia Opel. Łobudziński accetta, i due bevono molto a Zakopane e di ritorno a Cracovia nella notte, mentre l’Ingegnere guida, lui si addormenta sul sedile del passeggero e si sveglia con un grande dolore. Il resto, dice alla milizia, è noto.
Per le forze dell’ordine la dinamica è chiara, l’Ingegnere deve avere sparato a Łobudziński, che è sopravvissuto per miracolo. Con il sospetto ben chiaro nella mente, le indagini si spostano a Cracovia. Alla ricerca di questo Ingegnere, il cui nome è Władysław Mazurkiewicz. A qualcuno il nome può suonare familiare. Dopotutto Mazurkiewicz in Polonia è diventato famosissimo. Qualcuno lo chiamava il vampiro di Cracovia, qualcun altro l’assassino gentiluomo. Nomi che descrivono, e in parte celano, il più spietato serial killer della Polonia del secondo Novecento.
Gentiluomo Mazurkiewicz lo è sul serio, a Cracovia tutti sembrano conoscerlo e tutti ne hanno un’opinione ammirata. Persino la ex-moglie, da cui ha divorziato anni prima, gli è molto legata. E l’avvocato, a cui si rivolge dopo che la milizia ha bussato alla sua porta, garantirebbe per lui pure con la sua vita. Lo stupore di tutti si fa enorme quando la milizia, perquisendo il posto dove vive, non trova quello che cerca, ovvero la pistola con cui avrebbe sparato a Łobudziński, ma i cadaveri di due donne sotto le travi del pavimento.
Alla vicenda di Mazurkiewicz, ha dedicato un libro uno degli autori di reportage più importanti in Polonia, Cezary Łazarewicz, vincitore del prestigioso premio Nike nel 2017. Il libro, che si intitola Elegancki morderca, è uscito in Polonia nel 2015 per W.A.B. ed è ancora inedito in Italia.
Il libro di Łazarewicz parte proprio dall’ultimo omicidio del fantasma di Cracovia, quello che non gli è riuscito di compiere, per la fatalità di un cranio che non si è fatto perforare. E da lì ricostruisce a ritroso una carriera omicida con decine di casi accertati e altri solo attribuiti. Sullo sfondo, c’è la Polonia della fine della guerra e dell’immediato dopoguerra, un Paese devastato, al contempo eccitato e spaventato dal nuovo regime politico che si avvicina, pieno di zone grigie dove gente senza scrupoli può infilarsi a tradimento per arricchirsi. Mazurkiewicz era proprio uno di questi. Il fatto che tutti lo chiamassero ingegnere senza che lo sia davvero mai stato è il tratto simbolicamente più ricco della sua vicenda, dimostra quanto e come fosse un uomo straordinariamente abile a farsi amare. Figlio di un tipografo, ne eredita l’attività prima della guerra e poi naturalmente è costretto a smettere durante il conflitto. Cracovia non subisce le devastazioni di Varsavia, i tedeschi la ritengono una città loro, le cambiano il nome in Krakau e la annettono direttamente. Qui Mazurkiewicz fa la conoscenza di un ufficiale della Gestapo e capisce che può approfittarne per avere le spalle coperte. Inizia a fare affari sul mercato nero, si arricchisce, ma non ne ha abbastanza. Un giorno decide che vuole appropriarsi del gruzzolo di dollari di un ex ufficiale polacco in clandestinità. Gli propone un affare fasullo, lo porta in campagna, gli dà un panino e si allontana con la scusa di andare a cercare l’altro contatto dell’affare. L’uomo sospetta, ma addenta il panino e inizia a star male. Si salverà. Il veleno non era sufficiente ad ucciderlo, ma non avrà mai il coraggio di denunciare Mazurkiewicz perché sa dei suoi contatti con la Gestapo. Finché dura la guerra, e pure dopo, se ne tiene bene alla larga.
Mazurkiewicz però ci ha preso gusto, ha capito che del veleno non si può fidare, e approfittando delle sue conoscenze si procura una pistola. È un piccolo revolver tedesco, di quelli in dotazione alla polizia, ma gli basta. Costruisce una procedura che ripeterà più volte, fino al caso di Łobudziński. Attrarre la vittima e i suoi dollari con la prospettiva di un affare e poi un colpo di pistola alla nuca, e via.
Finita la guerra, finisce l’occupazione. Mazurkiewicz non ha più la Gestapo a cui appoggiarsi, ma è uno che cade sempre in piedi. Ha un’auto, una vecchia Opel che ha comprato dai tedeschi durante la guerra, e così viene assunto alla motorizzazione come esaminatore per neopatentati. Quando gli esaminati lo chiamano ingegnere, lui non li corregge. Lavora onestamente, tesse le sue conoscenze, continua a uccidere.
Nel 1945, quando la guerra è finita da poche settimane, rischia già di essere scoperto. Mentre trasporta in auto il cadavere dell’ennesima vittima, la terza tra quelle documentate, finisce in un fosso ed è costretto a chiedere aiuto a dei contadini del posto. I contadini sospettano che ci sia qualcosa di strano e avvertono le autorità. L’auto è riconoscibile di suo, e poi è l’unica che vedono da settimane, impossibile essersi sbagliati. La milizia si interessa al caso, ma Mazurkiewicz dalla sua ha un’arma solidissima: le sue conoscenze. Da una giovane ragazza della croce rossa ottiene un alibi convincente, dall’amico avvocato una difesa solidissima, e dagli ufficiali della milizia stalinista il silenzio accomodato con dollari e bottiglie di vodka pregiata. Nonostante le prove siano di ferro, Mazurkiewicz ne esce immacolato.
Quando nel 1955 arriva a processo, dopo che è impossibile spiegare i cadaveri sotto il pavimento, confessa spontaneamente numerosi omicidi. Dai resoconti dell’epoca che Łazarewicz riporta nel suo libro, impressiona la placidità dell’uomo che, alla barra degli imputati, si presenta flemmatico ed elegante come sempre. Solo il suo volto è un po’ più scavato di quanto si ricordassero i suoi tanti amici di Cracovia. Quei tratti più rigidi e alcune foto scattate ad arte dove appare con uno sguardo un po’ maligno gli fanno meritare il soprannome di fantasma di Cracovia.
Il processo dura a lungo e attira attenzioni da tutto il Paese. Nel libro di Łazarewicz si combinano alla perfezione ritagli di giornale, commenti dei parenti delle vittime, le memorie dell’avvocato a fine carriera che decise di difendere Mazurkiewicz rischiando la reputazione di una vita. L’autore si permette solo qua e là di inserire la sua voce, tenendo per il resto magistralmente le fila di un discorso collettivo di cui lui è solo il portavoce.
Non c’è traccia di pentimento in Mazurkiewicz né la sensazione che lui sia davvero consapevole di aver commesso dei crimini così efferati. Ricorda dettagli meticolosi degli omicidi che ha compiuto, ma sono quasi tutti dettagli materiali. Delle vittime a stento ricorda i nomi, ne escono disumanizzati. La stampa dell’epoca, alacremente pronta a pompare la propaganda di regime, descrive il fantasma di Cracovia come un prodotto deviato della mentalità borghese, sottolineando come l’uomo abbia iniziato a trafficare e uccidere già durante la guerra e come il movente economico sia piuttosto evidente. Tacciono i giornali, invece, sull’incredibile caso di dieci anni prima, quando di fronte a prove schiaccianti la milizia chiuse un occhio con le tasche gonfie e le guance rosse di una bella bevuta.
Alla fine l’imputato rifiuta il perito psichiatrico, non accetta la proposta del suo avvocato di farsi dichiarare instabile, cosa che gli salverebbe la vita. Nella Polonia socialista infatti, la pena per un’omicida è la morte per impiccagione. Accompagnato da un’opinione pubblica inferocita contro di lui, abbandonato da quasi tutti, pure quelli che fino all’ultimo avevano provato a sostenerne l’innocenza, Mazurkiewicz viene portato al patibolo. Chiede e ottiene di poter parlare con la matrigna che l’ha allevato. Il 29 gennaio del 1957 alle 19:40, il medico legale ne conferma il decesso. L’imputato resta alla forca per i successivi venti minuti.
Si conclude così una storia piena di ombre, che emerge dallo sfondo di una comunità ancora ferita dalla guerra, che comunque riesce a indignarsi per l’orrore di un omicida spietato, ma che non ha i mezzi ancora per capire quanto e come della sua storia Mazurkiewicz fosse un prodotto abbastanza diretto.
Il libro di Łazarewicz ha il pregio di non seguire linearmente le vicende. La fortuna di autori così è quella di conservare la vocazione per il vero, che viene dalla pratica giornalistica, con un’abilità narrativa di romanziere consumato. Mazurkiewicz viene fuori a strati, prima come il mite ingegnere, poi come il fantasma di Cracovia, poi come l’uomo fragile che va incontro alla sua condanna. E sullo sfondo, dipinta come mai altrove in letteratura, la Polonia degli anni ’40 e ’50, i suoi locali, i suoi personaggi, i cibi e gli oggetti che l’hanno ricreata, i giornali e le voci che l’hanno raccontata, nello stridore di miseria reale e gloria decantata che hanno caratterizzato gli anni duri dello stalinismo. Guardando Mazurkiewicz e la sua batteria di delitti, tutti ricostruiti con maestria da giallista, vediamo tutto un mondo dai meccanismi così lontani da noi, eppure così vividi. Il fantasma di Cracovia non è davvero un fantasma, non ingannino i suoi zigomi spigolosi. È un figlio del suo tempo, attore oscuro degli anni più duri della storia recente polacca.