Viva la Bulgaria! – un documentario sul neofascismo a Sofia

Viva la Bulgaria

Dalla primavera scorsa in Bulgaria la destra neofascista è al governo in coalizione con il partito di centrodestra Gerb del premier Bojko Borisov. Dopo le elezioni parlamentari del marzo 2017 i Patrioti Uniti, un’alleanza di tre partiti dell’estrema destra razzista (Ataka, Patriotičen Front e Vmro), pur avendo registrato un calo nei voti attestandosi al 9%, è entrata per la prima volta nella maggioranza di governo con un ruolo molto rilevante. Ai “Patrioti” sono stati infatti assegnati due poltrone di vicepremier e tre importanti ministeri: difesa, economia e ambiente. Si tratta di un risultato che corona una lunga storia della destra radicale bulgara che va dalla dittatura degli anni ’30 del secolo scorso, fino alla rinascita nella seconda metà degli anni ’80 sotto l’ala protettrice del regime comunista e alla forte crescita negli anni duemila. A partire dal 1° gennaio di quest’anno, con l’inizio del semestre in cui Sofia ha la presidenza di turno dell’Ue, i neofascisti bulgari si trovano addirittura al timone dell’Unione. Era inevitabile quindi che anche il cinema bulgaro affrontasse il fenomeno. Il mese scorso, durante il Sofia Film Festival, c’è stata la prima del documentario Viva la Bulgaria! (“Da živee Bālgarija”), diretto da Adela Peeva, una regista bulgara attiva da alcuni decenni e nota internazionalmente soprattutto per un altro documentario che ha riscosso un notevole successo nel circuito dei festival, “Di chi è questa canzone?” (“Čija e tazi pesen?”, 2003).

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Il Battello Bianco di Tschingis Aitmatov

Il battello bianco

È sempre un’avventura approcciarsi per la prima volta alla letteratura di un paese lontano, di cui si conosce poco, e così è stato con questo libro di Tschingis Aitmatov, scrittore kirghiso che con Il Battello Bianco (edito in Italia da Marcos y Marcos nella traduzione di Gigliola Venturi) ci trasporta in una piccola riserva forestale sulle sponde del lago Issyk-Kul’, nel Kirghizistan. Čyngyz Aitmatov, seppur poco noto in Italia, rappresenta una pietra miliare nella letteratura sovietica. Nei suoi romanzi ha esplorato a fondo temi legati alla crescita e all’adolescenza, al conflitto tra il bene e il male, dando sempre una grande rilevanza al folclore del suo amato paese natio, il Kirghizistan. Il Battello Bianco, pubblicato nel 1970 nell’Unione Sovietica, rappresenta il suo primo romanzo scritto direttamente in russo, in quanto la produzione letteraria precedente rispecchia il bilinguismo dell’autore che era solito scriver prima in kirghiso, traducendo successivamente in russo. Da questo libro è stato tratto l’omonimo film sovietico del 1976.

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Ljudmila Petruševskaja, una Russia grottesca tra realismo e folklore

Petrusevskaja

Mi sono imbattuta per la prima volta nel nome di Ljudmila Petruševskaja leggendo una piccola raccolta di racconti russi edita da E/O, Rose di Russia. Una collana ormai fuori catalogo che si proponeva di far conoscere le migliori scrittrici di un paese attraverso la presentazione di una loro selezioni di racconti. Senz’altro un’iniziativa piacevole con l’obiettivo di accendere la curiosità nel lettore italiano e, perché no, portarlo ad approfondire la lettura di alcune delle scrittrici presentate. Ed è con il racconto ‘’I nuovi Robinson’’, storia di una famiglia che decide di fuggire dalla società e isolarsi nei boschi, che ho scoperto il mondo letterario di Ljudmila Petruševkaja, autrice venerata in patria e sicuramente apprezzata all’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, tale da essere definita ‘’la più grande autrice russa vivente’’ dal The Guardian. In Italia è stata pubblicata da Einaudi nel 2016 una sua raccolta di racconti dal titolo accattivante di C’era una volta una donna che cercò di uccidere la figlia della vicina. I racconti qui contenuti sono editi in Russia su Ogonёk, una delle riviste letterarie più longeve, nonché Novyj Mir e Literaturnaja Gazeta.

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Maledetto Cioran

Cioran

Al principio del 2008 appare in Francia, per i tipi de L’Herne, la prima traduzione completa della Trasfigurazione della Romania di Emil Cioran. L’operazione editoriale è coraggiosa sia perché si tratta di un’edizione integrale, nel senso che le pagine a suo tempo espunte per volontà dell’autore vi si trovano reintegrate, sia perché il libro stesso non è di quelli che, a scriverne, fanno propriamente onore. In Francia, naturalmente, l’eredità di Cioran è molto più sentita che in Italia; eppure il libro, che l’autore scrisse e pubblicò in romeno nel 1937 col titolo Schimbarea la faţă a României, non era mai stato tradotto in francese.

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Gajto Gazdanov, un esule russo nel demi-monde di Parigi

Gazdanov

In questo romanzo carico di elementi autobiografici, Gazdanov prende per mano il lettore e lo conduce nel  profondo demi-monde parigino, a conoscere personaggi ai margini della società che volteggiano nel buio tra café notturni, music-hall e case chiuse, tra boulevard rispettabili e vicoli al limite del degrado. Personaggi  straordinari colti nel loro affanno quotidiano, di cui Gazdanov ci narra le storie, ora con distacco e disprezzo, ora con sincera empatia: prossineti, donne che fanno la vita, viziosi membri della bourgeoisie francese, clochards, vecchi rivoluzionari russi, ex-generali colti e rispettabili costretti a fare i tassisti o gli operai per sopravvivere.

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Di belle e di bestie – su Panna a netvor

Panna a netvor

È di questo genere il piacere che dà la visione di Panna a netvor, adattamento cinematografico cecoslovacco del classico La Belle et la Bête pubblicato nel 1740 da Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve (in La Jeune Américaine et les contes marins), nel 1756 in versione ridotta da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (in Magasin des enfants) e nel 1889 da Andrew Lang (in The Blue Fairy Book). Il regista si chiama Juraj Herz, è di origine ebrea, aperto alla sperimentazione e alla contaminazione tra linguaggi e generi, ed ha già alle spalle una certa notorietà in patria con film tuttora godibili: il drammatico Petrolejové lampy (Lampade a petrolio, 1971), l’horror gotico Morgiana (1972), il sentimentale Un giorno per il mio amore (Den pro mou lásku, 1976).

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Václav Havel, Anticodici

Anticodici

Durante la sua intera carriera letteraria, Václav Havel è profondamente interessato alla scomposizione (e successiva ricomposizione) degli elementi costitutivi del linguaggio, sino al “livello zero” dell’alfabeto. In quei “caratteruzzi”, attraverso i cui vari “accozzamenti” siamo in grado di comunicare i nostri “più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo” (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Galileo Galilei: Opere, ed. nazionale a cura di A. Favaro, Giunti-Barbera, Firenze 1890-1909), egli individua la possibilità di costruire un linguaggio dell’assurdo, un “alogismo ebete”, che sia l’esasperazione di quello “squallore semantico della lingua ceca nei giorni in cui accaniti commandos di penitenzieri e mestatori politici gareggiavano a rintontire le menti con tricchi tracchi di slogan”

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La squadra spezzata. Per le strade di Budapest tra Puskás e i carri armati

La squadra spezzata

Il 2016 d’Ungheria ha portato con sé una grande quantità di evocazioni, coincidenze e anniversari che hanno inevitabilmente dato a molti di che scrivere, in lungo e in largo per il continente, fuori e dentro la grande nazione magiara. È stato innanzitutto il sessantesimo anniversario della Rivoluzione ungherese del ’56, il tentativo coraggioso ma vano dell’Ungheria di sottrarsi alla logica della guerra fredda e al controllo totale dell’Unione Sovietica. Ed è stato anche il ritorno della nazionale ungherese di calcio su un palcoscenico internazionale, quello degli Europei di Francia, dopo un’assenza che durava dai mondiali di Messico ’86. Un fatto, quest’ultimo, meno banale di quanto si possa credere per una nazione innamorata del calcio e che, proprio a ridosso di quel ’56 soffocato nel sangue, aveva proposto al mondo una delle squadre più forti della storia, l’Aranycsapat, la squadra d’oro, l’Ungheria di Ferenc Puskás. Due storie apparentemente distanti, quella dei destini di un popolo orgoglioso della sua squadra di calcio, ma invece quasi indissolubilmente legate, e raccontate con pacatezza e sapienza da Luigi Bolognini nel suo La squadra spezzata edito nel 2016 dai maestri italiani di storie sportive non convenzionali, i tipi di 66thand2nd editore.

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Il giardino dei cosacchi. Un po’ di vita accanto a Dostoevskij.

Il giardino dei cosacchi

Il contributo che la letteratura russa dell’Ottocento ha dato all’umanità è probabilmente tra le più fedeli definizioni possibili della parola ‘inestimabile’. Tanto e tale il mondo creato e descritto, ma anche compianto e squarciato, dai grandi romanzieri russi del XIX secolo che cognomi come quelli di Tolstoj, Gogol’, Turgenev e Dostoevskij sono diventati simboli collettivi persino al di là delle stesse opere da loro consegnate al pubblico. Dostoevskij in particolare, oltre a essere probabilmente il più noto tra tutti i citati, ha creato attorno a sé un’immagine ricca di stimoli e suggestioni; si può dire in un certo senso – ma senza cadere nel tranello critico del facile biografismo – che Dostoevskij stesso sarebbe il perfetto personaggio di un romanzo di Dostoevskij. Se ne è accorto nel tempo il mondo letterario, se ne è accorto soprattutto Jan Brokken che all’autore di Delitto e castigo ha dedicato il suo ultimo romanzo, uscito per i sempre encomiabili tipi di Iperborea: Il giardino dei cosacchi.

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Jan Neruda, I racconti di Malá Strana

Neruda

Ne Le città invisibili di Italo Calvino, un Gran Khan insolitamente bizantino chiede al suo ambasciatore Marco Polo come mai, tra le tante città i cui nomi fiorivano nelle sue storie di terre lontane, mai egli pronunciasse il nome di Venezia. E Marco risponde: “Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. […] Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.” Così è di Praga nella letteratura ceca.

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