Estratto in italiano del romanzo Disneyland di Stanisław Dygat
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di Stanisław Dygat, traduzione italiana a cura di Francesco Annicchiarico
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CAPITOLO II
Mio padre era un terribile imbranato. La cosa ebbe una certa ripercussione su di me, perché un bel giorno se ne uscì dicendomi che essere imbranati non andava affatto bene, e che una perfetta forma fisica mi avrebbe permesso di evitare ogni accidente. Dunque, mi costrinse ad allenarmi, a fare sport, ad imparare il jujitsu. A sette anni decise di insegnarmi a fare il salto mortale. Caddi sulla testa durante l’esercizio, la gran botta fece cascare la credenza, frantumando le porcellane di Sèvres. Non proprio di Sèvres, contraffatte, piuttosto, dettaglio che ebbe invece una sua ripercussione nella fase successiva di questa vicenda.
Con una botta così, c’era da restare scemi per sempre. Ma io ho sempre avuto una testaccia durissima. Quando dopo avrei cominciato a fare boxe, non ci sarebbe stato colpo che mi mettesse al tappeto. Avrei avuto ottime chance di arrivare ad alti livelli, ma un giorno durante gli incontri juniores Cracovia-Danzica, proprio mentre combattevo io, uno dei tifosi di Danzica urlò:
«Buttalo giù quell’orecchie-flosce!»
Quello fu il giorno in cui decisi che non avrei più fatto boxe. Non ho mai avuto problemi con le mie orecchie. Alcuni dicevano anche che fossero un attributo della mia mascolinità, ma diversamente da Dorota io sono sempre stato permaloso. A volte mi offendevo non tanto perché mi sfottevano, ma solo perché ne sospettavo l’intenzione. Non lasciavo trasparire niente, gli altri si chiedevano come mai andassi in giro con quell’espressione corrucciata. Io non ho mai avuto problemi con le mie orecchie. Dovessi essere onesto, direi che ho smesso con la boxe solo perché mi annoiavo, e non per quel tifoso. A Szymaniak, il nostro allenatore, annunciai invece che avrei abbandonato il ring per colpa della profonda cafonaggine del pubblico.
La conversazione fu particolarmente ridicola. Szymaniak cominciò subito sul patetico, buttandola sul ruolo dell’atleta. Era un uomo intelligente, ma il mio discorso senza senso lo mandò fuori di testa. Soprattutto perché continuavo a ripetere: «Non permetto a nessuno di offendermi.» Mi rendevo conto da solo di quanto fosse stupida quella sparata, ma non ce la facevo a trattenermi. Ero consapevole che, di tanto in tanto, mi capitasse di dire o fare qualcosa di idiota, ma anche se me ne accorgevo non potevo farci niente. Szymaniak così esplose e mi urlò contro: «Ma fa’ come ti pare, basta che mi lasci in pace.» Io: «Bene, molto bene», e mi avviai verso l’uscita. E lui bisbigliò: «Scemo di un orecchie flosce.» Mi fermai e tornai indietro. Restai immobile un attimo, poi gli dissi: «Avevo appena capito di fare uno sbaglio, stavo quasi per scusarmi, ma visto che anche lei mi offende allora me ne vado per sempre.» Sapevo benissimo che fosse una vigliaccata, è proprio per questo che dissi così. Era da vigliacchi, sapevo che aveva detto: «Scemo di un orecchie flosce» per rabbia, e non per cattiveria, ma feci finta di fraintendere. Per scaricargli addosso la responsabilità del mio abbandono.
La gente mente in continuazione. Inganna sé stessa e gli altri per ogni genere di questione. Sono tutti nemici di tutti, persino gli essere più prossimi tra loro. L’amicizia, l’affetto della famiglia, l’amore, solo sfaccettature della lotta di tutti contro tutti. Ci sono arrivato un giorno, mentre pensavo alla vita. Quando partorivo pensieri del genere mi veniva l’ansia.
Il litigio tra mio padre e mia madre fu simile all’incidente con Szymaniak. Non credo che mia madre aspettasse che cascassi testa a terra per dare ancora una volta la colpa a mio padre, ma non si fece scappare l’occasione per farlo.
Mio padre era confuso. Disse:
«Ma qual è il problema? La porcellana era anche fasulla.»
Voleva solo scherzare, pensava che in questo modo avrebbe alleggerito la situazione. Invece mia madre sfruttò la cosa a suo vantaggio: prese quella battuta come una frecciata al suo ruolo di madre, come se avesse più a cuore la porcellana fasulla della mia testa, e proseguì di gran gusto con allusioni altrettanto maligne. Alzò la voce, e anche mio padre cercò di farlo, ma non gli venne bene. Io avevo la testa che mi rimbombava, più per i loro strilli che per la botta. Avrei voluto dire qualcosa, ma non dissi niente. Né lui né lei fecero più caso a me.
Questo successe durante l’occupazione. La discussione tirò fino a tardi, si fece sera. Papà accese la luce, ma dimenticò di tirare giù le persiane e così arrivò un gendarme tedesco che si mise a strillare anche lui. Minacciò di farci fucilare, i miei gli diedero un bicchiere di vodka, poi la carne alla tartara che avrebbe dovuto essere la mia cena, e qualcosa per la tasca. Quando andò via si produsse in salamelecchi imbarazzanti. Sembrava Kwiatkowski, il portiere, nel giorno di capodanno.
L’atteggiamento di quel gendarme tedesco mi diede da pensare. Era stato vigliacco come mia madre e invidioso come mio padre. Eppure, riuscì a fare ciò in cui mio padre aveva fallito: sbrogliare la matassa. Dopo la sua uscita, i miei genitori restarono a lungo in silenzio, ma poi cominciarono a lamentarsi dell’occupazione. Alla fine andarono a letto, e a nessuno dei due venne a mettermi un impacco sulla fronte. Del resto, la testa non è che mi facesse più tanto male.
La riappacificazione tra loro fu solo momentanea. Il giorno dopo scoppiò un litigio anche peggiore. Stavolta la mia testa non c’entrava niente, la scintilla fu un altro commento sulla porcellana di Sèvres. Non molto tempo dopo mia madre traslocò. Viveva già da un po’ con un altro uomo, un certo dottore. Ne erano al corrente tutti, tranne mio padre.
Quando due persone si separano, e hanno un figlio, questi è di solito al centro di una tragica disputa. Ma ciò non accadde nella nostra famiglia. Fu mia madre ad andarsene, io no. Ogni tanto tornava a casa nostra per qualche motivo, e riprendeva a litigare con papà, ma rispetto a prima era diverso. C’era meno rabbia e non si urlava più. Quella volta del salto mortale, quando c’erano reali motivi per preoccuparsi della mia testa, litigarono per la porcellana. Ora invece non facevano altro che parlare della mia botta. Chiaramente, col tempo iniziarono a credere che alla base della loro separazione, e di quel famoso litigio, ci fossero le diverse vedute sulla mia educazione, e non tutte le altre, più vergognose beghe tra loro due.
Così, la domenica cominciai ad andare a pranzo a casa di mia madre. Quel suo dottore si rivelò essere una persona gentile. Io ci entrai in forte sintonia, mentre mia madre cercava sempre di mettere zizzania. Strano, anch’egli era un imbranato.
Quando cominciai con la boxe, il dottore veniva ai miei incontri e incontrava mio padre sugli spalti. Fingevano di non conoscersi, urlavano per incitarmi ed esprimere i propri giudizi. Se si incrociavano in un altro posto, non si scambiavano nemmeno un cenno.
A mia madre non piaceva che andassi da lei la domenica, quei pranzi erano solo un obbligo, per tutti. Una volta restammo soltanto noi due, il dottore fu obbligato a sbrigare una faccenda a Bochnia. Dopo mangiato, mi misi alla finestra a fissare il panorama di quella strada di Cracovia, unta di appiccicosa bruma invernale. D’un tratto mi ritrovai mia madre accanto. Restammo così, in silenzio, finché lei di punto in bianco si mise a piangere. Io pensai che non mi sarebbe potuto accadere niente di peggio o di più stupido di così, ma mi sbagliavo, perché un attimo dopo mia madre mi abbracciò e mi strinse forte. Restai immobile, mi irrigidii e provai puro odio per lei. Sapevo che quel riflesso non era scaturito dall’affetto, o da un rimorso di coscienza. Grazie a dio, peraltro. Aveva avuto alcune brutte discussioni con quel suo nuovo imbranato, forse sospettava che la tradisse, invece di essere a Bochnia. Era un’autentica possessiva, come tutti i tiranni e gli egocentrici. Era capace di fare scenate persino a mio padre, di cui non se ne fregava più niente. Lì alla finestra il mio ruolo era puramente casuale, avrebbe abbracciato chiunque le fosse stato a tiro.
Le persone, quando sono afflitte seriamente da qualcosa, cercano consolazione in un corpo estraneo. Ciò procura sollievo mentale. A me no. In casi simili, ho fastidio persino del mio stesso corpo, per non parlare di quello altrui. Preferisco andare a lavarmi, fare un bagno, lavarmi i denti, radermi e pettinarmi. Così cerco di distrarre il corpo dalla propria funzione psichica.
A ripensare quella scena, ho i brividi ancora oggi. Pregai che finisse al più presto. Fu mia madre a lasciarmi di botto. Smise di piangere e una smorfia cattiva le si allargò sul viso. Mi diede dei soldi e mi disse di andarmene al cinema.
Per strada finii in una retata. Mi lasciarono andare un’ora dopo, ma un gendarme tedesco me le diede di santa ragione, restò davvero colpito dal fatto che non cercassi di scansare i colpi, così mi allungò una tavoletta di cioccolato. Era cioccolata inglese, sulla carta c’era scritto “Polacchi, siamo con voi”. Particolarmente buona.
Mia madre si era interessata a me solo per il ciclico affiorare dei suoi sentimenti materni. Mio padre neanche ci provava a eseguire quel rituale, al contrario, si sarebbe occupato sempre più energicamente della mia educazione fisica. Io lo ignoravo tanto quanto mia madre che mi strinse a sé lì alla finestra. Non era altro che sfruttare il mio corpo per una resa dei conti con sé stessa.
Mio padre era un avvocato. Non ho mai capito come mai la gente decidesse di affidare a lui le proprie sventure. Non mi è mai arrivata voce che fosse riuscito a vincere una causa. Cercò persino di diventare magistrato, consapevole che gli avrebbero messo i bastoni tra le ruote. Tuttavia, mantenne i suoi clienti solo per via del nome che portava: il padre di mio padre era stato un celebre avvocato, uno che riuscì a tirar fuori dai guai più di una canaglia. Ma finì miseramente, da una casuale sprangata alla testa, sferrata da un galantuomo galeotto a cui aveva evitato i lavori forzati l’anno prima. Tale galantuomo era uomo di certa società e aveva una doppia vita. Grazie all’aiuto di mio nonno non poterono imputargli niente. Restò molto turbato, una volta compreso che l’uomo ucciso tra i fumi dell’alcol, nel cuore della notte di Zacisze, con una sprangata, era il signor Arens, il suo avvocato. Il giorno del processo, in tribunale, continuò a ripetere che non se lo sarebbe mai perdonato.
Mio padre ereditò lo studio legale da suo padre, poi i clienti e soprattutto il cognome. Quanto odio la parola nonno, è vetusta e infantile. Per quel che riguarda me, non mi è mai importato del mio cognome. Ho sempre e solo fatto attenzione a ciò che un uomo fa, e a quanto vale. Odiavo Erostrato, più di qualunque altro personaggio del mondo antico. Non sono mai riuscito a pensarci senza innervosirmi, è stato solo un imbecille.
Tutti quelli che riescono a costruirsi un nome con ogni mezzo mezzuccio, in genere raggiungono la fortuna in vita. Gli altri restano scemi e pigri, senza voglia di ottenere niente di valore, ad acchiappare le cose più a portata di mano. Questo è un dato di fatto. Tutto ciò nello sport è inconcepibile. Per quel che ho appreso dalle discussioni artistico-letterarie di Piwnica Pod Baranami, un posto dove andavo solo perché costretto da Agnieszka, ma com’era poi per il teatro, il cinema o più in generale per l’ambiente dell’arte, la questione del nome è del tutto diversa. Poniamo che un’attrice conquisti un ruolo dopo l’altro, e passo dopo passo cominci a costruirsi un nome, e che disponga di quella certa morbida avvenenza capace di mobilitare ogni regista. Questo spiega il perché ottenga sempre una parte. Per le stesse ragioni ci saranno ovunque sue fotografie, interviste e cose del genere, perché ora ha un nome. Questo fa sì che la scelgano persino quei registi sui quali la sua avvenenza non ha effetto, o soltanto per pura sconsideratezza o pigrizia. Fosse stata una podista, e magari sedotto persino un atleta del calibro Avery Brundage con le sue forme, non sarebbe riuscita comunque a battere il record del mondo. Nemmeno mai vinto alcun campionato.
Non sto sputando sul mondo dell’arte, sto solo esponendo un dato di fatto. Che poi questo mondo mi desse ai nervi, questa era tutt’altra faccenda. Frequentare l’arte mi interessava poco, e lo facevo solo perché Agnieszka mi obbligava.
Lo sport mi annoiava. Non sono mai stato un appassionato. I grandi professionisti raramente si innamorano della loro professione. A questo ci sono arrivato da solo. Non so per quale motivo sia così, forse per il pensiero fisso ai sacrifici per raggiungere grandi risultati. Forse solo per timidezza. Forse per entrambe le cose. C’è sempre da dubitare di chi si entusiasma per il proprio mestiere.
Il mio mestiere era lo sport, forse era persino più di così, potevo ben dirmi un celebre professionista. Il titolo di vicecampione europeo parlava per me. Sarei stato persino campione, se non avessi trascorso la sera precedente la finale con alcune ballerine in un locale notturno, in un elegante quartiere della città dove si teneva il torneo. Non so neanch’io perché mi trovassi lì. Quelle ballerine erano delle stupide, facevano moine e non mi divertirono neanche un po’. Me ne importava poco del titolo, del premio e tutte quelle scemenze. Per come la vedevo io, erano solo cose buone a rimpiazzare la mia casa, la mia famiglia, la mia infanzia. È stato mio padre a fare di me uno sportivo, io non ho mai provato gratitudine per lui, anzi, io non avevo alcuna voglia di essere un campione. Ho provato più di una volta a mollare le gare, non ci sono mai riuscito, erano legate a filo doppio alla mia vita.
Mi fecero cominciare senza che lo volessi, senza il mio intervento e sono perfettamente cosciente erano cose non mi andavano bene, che non avevano niente a che fare con me. Non saprei come spiegarlo, è stato tutto troppo complicato. Una volta ho provato a parlarne con Agnieszka. Mi disse solo: «Tu fai di tutto per complicare le cose più semplici. Devi essere più umile.» Non capì cosa volessi dire, per questo scaricò tutto su di me. Mancanza di umiltà! Ma da che pulpito? Certe volte la odiavo profondamente.
No, non avevo alcun motivo per sentire gratitudine verso mio padre. Per lui ero una specie di cavallo da corsa. E io me ne fregavo, me ne fregavo del suo atteggiamento con me, ma non potevo fare così per il futuro che voleva intraprendessi.
Cos’avrei scelto io? Se solo l’avessi saputo! Ero travolto da passioni, nostalgie e desideri indescrivibili. Spesso sognavo di fare qualcosa di grande, di eroico, e a mio discapito volevo che restasse nascosto al mondo e alla gente. L’esatto contrario di quell’idiota di Erostrato.
La boxe, a cui fui costretto, rimpiazzò tutto ciò da cui lo sport mi aveva liberato. Come un condannato ai lavori forzati che in essi ritrova consolazione per la perduta libertà.
No. Non c’era alcun motivo per dire grazie a mio padre, per dirgli che grazie allo sport avevo trovato la mia strada. Al contrario, fui proprio io a dare lustro al nome di famiglia, con le mie imprese. Prima, la gente mi chiedeva sempre se io fossi il figlio di quel famoso avvocato, poi cominciarono a chiedere a lui se fosse padre del famoso atleta. Proprio così! Tanto quel nome era la sua ultima, e forse unica ragione di orgoglio.
A dodici anni il salto mortale, per me, era una faccenda semplice come una passeggiata al parco. Mio padre cominciò a bere. Non sapeva più dove andassi a scuola. Non sapeva nemmeno se ci andassi proprio. Quando nuotavo i cento a dorso, veniva a prendermi il tempo, ma una volta era così ubriaco che finì in acqua col cronometro. Da quel giorno cominciò a vergognarsi di farsi vedere in piscina, cosa che mi diede un tale sollievo da farmi cominciare ad amare il nuoto. Dopo poco però mi annunciò che il nuoto era uno sport da idioti e che avrei dovuto cominciare a fare boxe. Ci restò troppo male per essere finito in acqua.
A me della boxe non fregava niente. Non c’era niente, a dire il vero, che mi interessasse più di tanto. Io avevo un carattere ero un sognatore utopistico, uno che sarebbe dovuto nascere figlio di milionario e viaggiare per il mondo in yacht, ad ammirare i tramonti. Ma siccome mio padre non era un uomo ricco, anzi, era un imbranato, meglio è stato che mi abbia cresciuto come uno sportivo, almeno sono riuscito a trovare una mia strada.
Quindi, lo sport non mi appassionava e non mi piaceva affatto, ciò che veramente mi interessava era il poggio di Kościuszko. Forse non il poggio in sé per sé, quanto ciò che si nascondeva sotto di esso. A chiunque chiedessi per saperne di più, mi davano sempre risposte spazientite, o mi elencavano invece nomi geografici, tipo Bielany, Skawina, Tyniec, Lanckorona e via così, cose di cui non volevo sapere niente. Non riuscivo a spiegarmi meglio, e allora mi davano dello scemo.
A me piaceva restare a guardare il poggio di Kościuszko, soprattutto al tramonto, mi piaceva fantasticare sui mondi nascosti al suo interno. Mondi diversi da quello in cui vivevo, ricchi di forme e colori sconosciuti, pronti a rivelarsi soltanto a me. Se non fossi diventato uno sportivo, sarei sicuramente diventato uno scemo patentato.
Continuai gli studi solo grazie a quel dottore, quell’imbranato di dottore che stava con mia madre. Voleva capire cosa facessi a parte il nuoto e quei giochini tipo il salto mortale. Quando capì che c’era poco altro, mi iscrisse a scuola. Mia madre mi disse che lo fece apposta, per provocarla. Ci fu un gran litigio. Agnieszka si comportava esattamente come mamma, in quei giorni.
Anch’io con Szymaniak feci la stessa cosa. Il dottore disse che i vigliacchi alla fine perdono sempre. Diceva che bisognava iscrivermi a scuola, ma aveva paura di dirlo a mia madre. Si rese conto che mamma l’avrebbe presa come una provocazione. Nella sua ingenuità, si disse che se l’avesse messa di fronte al fatto compiuto, non avrebbe potuto fare scenate. Era proprio un imbranato cronico. Quando mamma poi cominciò a chiedermi come andava con le lezioni, lui scappava dalla stanza. Io mi inventavo tutto, non ci andavo a scuola, mi avevano sospeso. Chiamarono anche mio padre, un paio di volte, ma non si presentò mai. Chiese a me cosa volessero da lui. Io gli risposi che si trattava sicuramente della gita ai laghi. Si arrabbiò per il tempo che avrebbero voluto fargli perdere, e si sentì subito meglio con sé stesso.
Non avrei mai finito la scuola, se non fosse stato per Szymaniak. Lui veniva sempre a sapere tutto, e si impegnò per farmi riammettere in classe. Quel segretario con cui parlò era stato giudice di boxe, prima della guerra. Szymaniak controllava anche che finissi i compiti prima di cominciare gli allenamenti, se no mi rimandava a casa. È stato l’unica persona ad occuparsi veramente di me. Gli devo tutto. Certo che gli è proprio convenuto, non c’è che dire. Era un uomo intelligente e comprensivo, sapeva come parlare ai ragazzi. Solo una volta andò fuori binario, quando gli dissi che volevo lasciare la squadra. Fu la mia trovata idiota a mandarlo fuori di testa, ma poi facemmo subito pace e continuò ad occuparsi di me. In palestra non tornai più, così Szymaniak mi iscrisse ad atletica leggera. Disse che avevo il fisico del podista di razza. Se ne era accorto durante i riscaldamenti. A me non andava di correre, ma non potevo mollare anche questo. Quando cominciai a raccogliere i primi successi mi ci attaccai di più, ma non sono mai stato un appassionato, e mai lo sarei diventato.
Szymaniak non smise di interessarsi ai miei studi. Dopo la maturità mi consigliò di iscrivermi ad architettura. Disse: «Hai talento col disegno, ma attento a non sprecarlo. Vedi di non diventare mai un pittore, o cose così. Ti metti a fare una faccia senza naso, o una pancia con gli occhi, e poi? Cominci a bere, e smetti pure di essere un uomo. Quando si hanno dei talenti del genere, c’è da sfruttarli subito per scopi pratici e fruttuosi. Farai l’architetto.» Così cominciai, anche se non mi interessava affatto. Era così per ogni cosa. Mi ci mettevo solo perché ero costretto, cedevo al terrore delle circostanze. Mi lasciavo sopraffare dal corso delle cose. Non che mi mancassero volontà e carattere, ma entrambe lavoravano sul fondo oscuro, e conseguente, della catena degli eventi. Così perdevano valore e forza quando volevo servirmene.
Se qualcuno mi avesse chiesto se credessi al destino, avrei risposto che forse qualcosa di simile esisteva. Non pensavo fosse chissà che di soprannaturale, ma solo la semplice forza del conseguente sistema di eventi. Forza che acquista slancio, quando non abbiamo ancora giudizio per valutarla, o capacità di opporci. È possibile chiamarla destino? Solo se si può opporgli una reazione personale, stabilire le proprie verità e grattare via ogni strato di quelle altrui e delle abitudini.
Szymaniak aveva un atteggiamento così affettuoso verso di me, che a volte mi chiedevo se non fosse finocchio. Fino al giorno in cui si sparò un colpo in testa, a causa di Lola detta Fiat 1100, una creatura squallida che chiunque poteva caricarsi via dal Feniks per due spicci. Szymaniak fregò la pistola a uno della milizia, durante la partita col Gwardia. Quel poliziotto finì anche dentro per questo. Szymaniak era un uomo solo, pieno di complessi irrisolti, di malinconie da cui non riusciva a districarsi. Mio padre, imbranato e intellettualoide, si occupava della mia educazione sportiva. Lui, invece, uomo semplice e cocciuto, accresceva il mio spirito.
No, non era finocchio, anche se aveva molti problemi con le donne. Quella donna squallida era stata la prima che avesse mai avuto. Aveva quarantacinque anni. Quando l’inconsapevolezza si scontra con una passione emersa all’improvviso, non ne viene fuori niente di buono.
Di primo impatto, il suicidio di Szymaniak non mi fece particolare impressione, come invece avrebbe dovuto. Soltanto dopo cominciò a formarsi il mio ricordo di lui. Ma non fu la sua dipartita ad affliggermi di più. Era stato la prima persona a cui avevo fatto una vigliaccata. Cosa importava che me l’avesse fatta passare? Contemplavo l’immorale lotta di tutti contro tutti, guardavo negli occhi la falsità umana. Ma nel momento in cui feci qualcosa di vigliacco, non ce la feci proprio a dirmi uguale agli altri. La cosa mi si riproponeva spesso, non riuscivo a pensare ad altro. Mi muovevo inconsapevole verso tutto ciò che potesse essermi di vantaggio, o darmi piacere. In un certo senso, ammiravo il principe Nechlijudov di Resurrezione di Tolstoj. Cercavo di capire se un giorno avrei potuto anch’io fare ciò che aveva fatto lui. Mi sembrava che se fosse rimasta soltanto una cosa che potesse salvare la mia esistenza incompiuta, forse era soltanto non essere una completa nullità. Non parlavo mai di queste cose con Agnieszka, tuttavia quando tra noi due le cose cominciarono a farsi difficili, tornavo sempre con la mente a quella prima azione vigliacca della mia vita.
Proprio contro la persona che contò anche più di mio padre. E che si sparò in testa, dove restarono per sempre le sue malinconie da idealista.
CAPITOLO III
Mi innamorai per la prima volta a diciassette anni. Poi mi successe un altro paio di volte. Non tutti gli amori sono stati tanto attraenti da ricordarsene, ma tutti mi hanno lasciato quel senso di vuoto e di inquietudine, per cui le aspettative restano sempre disattese, e i desideri illusori. È un peccato quanto le parole, proprie e degli altri, perdano valore così all’improvviso.
Ci capita di immaginare l’esistenza di qualcuno capace di sopire le nostre malinconie. Qualcuno che prima o poi incontreremo. Immaginiamo molte cose che non si avvereranno mai.
A diciassette anni scoprii l’esistenza dell’amore. L’amore a questa età commuove i più anziani, e così nessuno lo prende sul serio. Hanno tutti la memoria corta. Di amore ce n’è uno soltanto., che capiti a diciassette o quarantasette anni, riduce un uomo allo stesso stato di idiozia. Tutti con la memoria corta. Quando finisce un amore, nessuno si stupisce che contasse così poco. Nessuno pensa all’età. Ecco la memoria corta. Ci si sbarazza facilmente delle proprie illusioni, ma si stenta a credere a quelle degli altri.
Alina Wagner era la ragazza più bella della scuola femminile, quella accanto alla nostra. Io non la conoscevo di persona, ma mi dava comunque ai nervi. Portava un basco alla parigina, cosa che mi irritava ancora di più. Anche lei mi odiava. Quando mi vedeva, mi faceva le facce, e siccome non reagivo, faceva anche di peggio. Una volta mi fece una linguaccia, piuttosto raffinata a dire il vero. Si voltò subito verso la sua amica, quasi l’avesse fatta lei. Un’altra volta, accortasi di me da lontano, si liberò della cartella, Io le passai davanti, Alina si acchiappò le orecchie e cominciò a tirarsele. Con la stessa ambiguità che l’aver mostrato la lingua. Il giorno prima della festa della donna, in classe arrivò una lettera indirizzata a tutti. Successe che fui il primo a leggerla. Era un invito dalle compagne della scuola accanto:
“Cari Amici!
Stiamo organizzando una serata da ballo in occasione della festa della donna. Contiamo sulla vostra presenza numerosa.
A nome di tutta la X° classe, scuola 135
Alina Wagner
PS
Il suddetto invito non rappresenta alcun obbligo per il sig. Marek Arens. Capiamo benissimo che potrebbe offendersi, se inciampassimo nelle sue orecchie mentre balla.
A.W.”
Recitai la lettera alla classe, saltando il post scriptum, poi la strappai e la buttai via.
L’indomani ero in strada, non lontano dalla scuola 135. Una decina di minuti dopo, Alina varcò il cancello, diretta dov’ero io, sovrappensiero. Mi notò solo quando ci separavano pochi passi. Si fermò, io restai immobile a fissarla. Un attimo dopo si avviò di fretta. Inciampò, accelerò ancora. Io aspettai un attimo, poi la raggiunsi correndo e le mollai un calcio sul sedere. Si voltò con uno scatto, non se l’aspettava proprio. Mi guardava terrorizzata, tirava su col naso. Corse via per qualche metro, poi si voltò ancora verso di me. Mi strillò:
«Cafone che non sei altro! Mascalzone, ti faccio vedere io! Ti faccio picchiare dai miei amici, non hai idea come, tu!»
All’ultimo tu scoppiò a piangere. Parlava ancora mentre piangeva, il che era davvero ridicolo. Restò impalata singhiozzando, poi girò i tacchi e se ne andò. Scappò pensando che l’avrei colpita sicuramente, ma per me la vendetta era già compiuta. Avevo ottenuto soddisfazione e non desideravo nient’altro.
Quindi non capisco ancora perché mi misi a correre per raggiungerla. Quando mi avvicinai abbastanza, rallentai il passo. Non avrei saputo cosa fare. I passanti cominciarono a fissarla. Un uomo la trattenne per un braccio, le chiese se avesse bisogno di aiuto. Lei si divincolò e continuò a correre.
Ogni tanto si girava a guardare. Quando vedeva che le ero dietro di corsa, scoppiava in un pianto ancora più forte. Cercava di affrettare il passo, ma le veniva difficile. Doveva essere senza fiato. Arrivò su viale Mickiewicz, attraversò senza fare attenzione alle macchine, e sparì nel vialetto di parco Krakowski. Attraversai la strada correndo e la cercai con lo sguardo. Mi venne in mente quel film su quel maniaco sessuale che uccideva le donne. Anche quell’assassino di donne inseguiva la preda e la cercava con lo sguardo, come me. Aveva un’espressione terribile. Avevo il terrore di somigliargli. Mi sembrava tutto orribile, il calcio, l’inseguimento, io stesso.
Alina era seduta poco lontano, su una panchina. I piedi penzolanti, il viso coperto dalle braccia incrociate e appoggiate allo schienale. La schiena le tremava. Io mi avvicinai. Una raffica mulinellava le foglie. Lei non si mosse. Restai immobile sovrastandola finché cominciai ad accarezzarle i capelli. Non portava il suo berretto, lo teneva stretto in mano. Scattò all’improvviso e senza alzarsi esclamò:
«Tu sei un cafone violento. Sei un cannibale. Se solo sapessi quanto ti odio.»
Mi sedetti accanto, e lei si voltò verso di me e mi afferrò per il bavero. Mi posò la testa sul petto e la coprì con la mia giacca.
Mi sentii meno simile a quell’assassino di donne.
L’amore era qualcosa di completamente nuovo nella mia vita. Fino a quell’istante c’era stato spazio solo per la boxe e lo studio, volevo la mia indipendenza. Ora mi trovavo nella stessa situazione di chi non ha niente a che fare col denaro, e viene promosso direttore di banca. Cose del genere succedono nel nostro paese, e anche queste finiscono male, proprio come finì il mio amore.
Non passò molto tempo prima che Alina cominciasse a uscire con un altro ragazzo. Si chiamava Artur Wydowiński, era figlio di un giornalista e pensava che la cosa l’autorizzasse a manifestare le proprie convinzioni culturali.
Li incontrai insieme una volta, per caso, non lontano da quella stessa panchina del parco. Camminavano tenendosi per mano. Alina per prima si accorse di me, mollò la mano di Artur e gli si aggrappò al braccio. Rallentarono. Io mi fermai, tagliandogli la strada. Non so perché l’avessi fatto, avevo voglia di ignorarli, non avevo previsto l’arrivo della rabbia che mi prese. Alina mi lanciò lo stesso sguardo di quando le mollai il calcio nel sedere. Le tremavano le labbra, a lui le mani. Decisi di dargli una manata sulla fronte, solo una, giusto per stabilire la mia superiorità. Ma lo vidi risoluto a battersi con me, rabbia a parte. All’epoca ero già campione juniores dei pesi medi. La disperazione di Artur risvegliò un senso di rispetto. Così gli sputai sul piede e mi allontanai. Da lontano percepii il pigolio di Alina:
«Non è altro che un cafone. Andiamo, Artur. Non hai idea di che cafone sia quello.»
Ero indeciso se tornare indietro e strapparle il berretto di dosso, ma mi era già passata la voglia.
Quel berretto mi lasciò una specie di fissazione. Da allora in poi, tutte le volte che vedevo una pensionata in berretto mi assaliva la voglia di strapparglielo di testa.
Artur era un giovane industrioso. Fece con Alina ciò che alla luce maestosa del primo amore, non sembrava essere un sacrilegio. E una volta compiuto l’atto, la lasciò.
Dopo cominciai a incontrarlo piuttosto spesso. Divenne regista teatrale, fece una certa carriera. Su di lui si parlava e si scriveva molto. A me ha sempre regalato i biglietti per gli spettacoli. A me, in generale, il teatro mi annoiava, ma grazie a quei biglietti riuscivo a pagarmi i debiti con Agnieszka. Mi piaceva, Artur. Era un uomo intelligente e maligno.
Una volta scambiammo due chiacchiere su quelle vecchie storie.
«Senti», gli dissi «Ma se quella volta ti avessi tirato un pugno, tu che avresti fatto?»
La frase suonò talmente candida che scoppiammo a ridere.
«Tu sei pazzo», rispose «Avevo una strizza mostruosa. Sarei scappato non appena avessi alzato il braccio.»
Poi aggiunse:
«Lei era innamorata di te, non di me. Quando te ne andasti si mise a piangere. Saremmo dovuti andare al cinema, ma lei scappò via a casa.»
Era tutto di nuovo così candido che riscoppiammo a ridere.
Mi dissero che quando Artur lasciò Alina, lei si mise a bere. Andava al Feniks e si buttava addosso a chi capitasse. Si sentiva frustrata, mi dispiaceva. Avrebbe potuto evitare la cosa, se non mi avesse lasciato per Artur.
A dire la verità, non è andata così, anzi. Non è stata Alina a lasciarmi, l’ho lasciata io e lei finì in malora a causa mia.
Speriamo sempre che gli eventi esaudiscano da soli le nostre intenzioni. Sottovalutiamo la verità che la realtà sprigiona. Siamo sordi alle spiegazioni più evidenti, se queste non sono ciò che corrisponde alle nostre volontà, o soddisfazioni. Si affrontano sacrifici e difficoltà pur di rendere irreali i fatti. La memoria corta aiuta molto, è l’amico più fidato.
I fatti che riguardano la storia del mio primo amore sono semplici e veritieri, anche se tutto è andato diversamente.
L’amore mi colse di sorpresa, un evento del tutto nuovo nella mia vita. Non riuscivo a governarlo. Non sapevo come infilarlo tra tutte le altre faccende. Avevo consacrato tutto me stesso all’amore, con la passione del principiante. Non mi interessava nient’altro che lei. Ero impaziente di mostrarmi vinto per confessarle i miei pensieri più reconditi. Questo non si fa. È qui che nascono noia e frustrazione.
Due essere uniti dall’amore, non diventano identici grazie a esso. Questa è solo una folle idea delle donne che si occupano di letteratura. Se si offre tutto e ci si confessa ogni cosa, cresce quella pretesa di compenetrazione che finisce invece per accentuare la voglia di seppellire i sentimenti.
Io amavo Alina, e lei non mi dava alcun argomento per farmi credere di non provare le stesse cose. Eppure, la frustrazione cresceva in me ogni giorno di più. Pensavo che Alina non mi corrispondesse per ciò che il mio amore valesse davvero. Lei mantenne la sua peculiarità, e io persi la mia, e ciò mi condusse al capolinea. Mi sentivo sfruttato. Cominciai a credere sempre meno ai suoi sentimenti, i miei si trasformarono in fastidio. Ricominciai a credere al suo amore per me, ma solo quando il mio svanì del tutto, e allora mi prese il terrore. Non per il mio amore finito, ma per il suo che continuava. L’idea dell’assenza si trasformò in quella dell’eccesso. Mi mancava la mia indipendenza. Ero sfinito. Volevo solo tornare a essere me stesso. Volevo solo questo. Io rispondo moralmente della storia con Artur, volevo solo liberarmi di Alina. Quando ci riuscii, cominciai a compatirmi. Mi vedevo come un uomo abbandonato e profondamente ferito. Poi, mettendo in fila gli eventi scelsi solo quelli che rispondevano alle mie false convinzioni. Per poco non spaccai la faccia ad Artur, che avevo scelto come alleato inconsapevole.
Quando Alina finì in malora, diciamo così, mi sentivo con la coscienza pulitissima e cominciai a prendere per vere le mie stesse bugie e dispiacermi per la sua brutta fine.
Ma Alina non finì affatto in malora. L’ho incontrata molti anni dopo, aveva un aspetto radioso. Più bella che mai. Andammo a prendere un caffè al Warszawianka.
«Mi fa piacere vederti», mi disse «Vedo raramente i vecchi amici. Mi sono trasferita a Nowa Huta. Non sei cambiato per niente.»
Aveva avuto un suo brutto momento, e la gente ci aveva ricamato su. Si era laureata in chimica, non aveva ancora un lavoro. Si era sposata con un ingegnere di Nowa Huta, aveva avuto due figli.
«Vorrei presentarti Karol. È fissato con lo sport. Sei il suo idolo. Contro l’Inghilterra, quando gliel’hai fatta a quegli inglesi, è letteralmente impazzito. Quasi mi vergognavo, anche se sono impazziti tutti. Persino io. Ma nessuno come Karol.»
Dev’essere un imbranato niente male, mi dissi.
«Quando gli ho detto che siamo stati insieme, mi ha pregato che ti portassi da lui. Vieni. Così vedi quanto è simpatico.»
«Di certo non un cafone violento come me», commentai.
Alina sorrise. Non avrei dovuto dire questo. Feci una gaffe spazio-temporale. Mi afferrò una guancia con le dita e scoppiò in una risata. Diventai triste. I sentimenti che un tempo erano l’unica cosa che contava, oggi valevano quanto una qualunque altra informazione.
Una volta le dissi che era stata il mio unico e solo amore. L’eco di quelle parole rimbalzò per tutta la caffetteria. Erano parole vuote, sorde, inafferrabili.
Non solo a lei dissi una cosa del genere. Ho sempre detto la verità. Un amore come questo elimina gli amori precedenti e futuri.
Quell’incontro a distanza di anni non mi fece effetto, confermò solo che il primo amore ha un gusto difficile da ritrovare.
Un giorno la sorella di mia madre mi portò delle caramelle. Avevano il sapore più meraviglioso che avessi mai provato. Ne mangiai solo una. Quello stesso giorno, il fratello di mia madre ripartì, era venuto da noi in visita. Mia madre gli diede le mie caramelle. Io non sono stato mai più capace di ritrovarle. Forse si trattava di comunissime caramelle, che mi sarà persino ricapitato di mangiare.
Sarei passato volentieri a casa di Alina e di suo marito.
«Mi hanno detto che ti hanno visto al Warszawianka con una bellissima ragazza», mi disse Agnieszka qualche giorno dopo.
«Ah, è solo un’amica. Una di scuola. Usciva con Artur Wdowiński.»
Agnieszka scoppiò a ridere.
«Ma smettila. Chi se ne frega di quello che ha fatto. Me ne parli come se ti stessi facendo una scenata.»
«Io?»
«E chi allora?»
Non sarei mai più passato a trovare Alina e suo marito.