Espressione musicale di un progetto di ampio respiro culturale, Dikanda è una band che evoca spazi indefiniti e commistioni “a est”.
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di Roberto Reale
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In Polonia l’interesse per la world music è piuttosto vivo, e ha prodotto negli ultimi vent’anni emergenze di un certo rilievo: celebre è, ad esempio, il gruppo cracoviano Kroke, il quale mescola efficacemente influenze di ascendenza orientale, klezmer e balcaniche ad un jazz di buona scuola. Di Varsavia è invece Katarzyna Szczot, in arte Kayah, già coautrice insieme a Goran Bregović di uno tra gli album di maggior successo di pubblico in Polonia (Kayah i Bregović, 1999; 700 mila copie vendute), e poi interprete di musiche della tradizione ladina, yiddish, araba, ebraica, macedone, romani e polacca in Transoriental Orchestra (2013).
L’ensemble Dikanda vede la luce a Stettino nel 1997. Il terreno di riferimento è ancora, e anzi in maniera persino più pronunciata, l’Est: inteso come luogo semi-mitico, che eccede il piano puramente geografico per acquisire una connotazione storica e antropologica. Scelta forse singolare per un gruppo che nasce in una delle città più occidentali del Paese, a una manciata di chilometri dalla frontiera tedesca e dal Baltico; ma non è da escludere che rivolgersi ad est, alle kresy wschodnie, quei territori ceduti dopo la Seconda guerra mondiale all’Ucraina e alla Bielorussia, per cercarvi le radici della propria identità, sia impulso naturale per chi abita un luogo-avamposto, una città a sua volta sottratta all’identità germanica (tale è appunto Stettino, parte degli Ehemalige Deutsche Ostgebiete, gli ex territori tedeschi orientali) e ancora oggi in bilico tra due mondi.
Dai vicini Paesi slavi ai Balcani, alla Russia, a Israele, fino all’Africa e all’India il procedere è inevitabile. Così come è naturale, per chiunque dall’Europa voglia esplorare lo spazio orientale, abbracciare quelle tradizioni “altre” che la musica colta ha sempre tenuto un po’ al margine, pure quando, ad esempio con le scuole nazionali a cavallo tra XIX e XX secolo, vi ha attinto come ad un inesausto serbatoio di ispirazione: la tradizione yiddish, quella romani, quella curda, e così via.
Lo spirito della “raccolta” quasi scientifica del materiale sonoro pervade l’album di esordio del gruppo, Muzyka czterech stron wschodu (“Musica delle quattro parti d’Oriente), il quale contiene anche, a mo’ di manifesto, il brano eponimo del progetto: Dikanda essendo il nome di una struttura familiare allargata di alcuni popoli del Mayombe e del Congo, i cui membri si ascrivono tutti, secondo la discendenza matrilineare, ad un antenato comune (African systems of kinship and marriage, a cura di A. R. Radcliffe-Brown e Daryll Forde, Oxford University Press, 1950). In questa prima fase fanno parte dell’ensemble soltanto cinque artisti: Anna Witczak (voce e fisarmonica), Katarzyna Dziubak (voce e violino), Piotr Rejdak (chitarra), Grzegorz Kolbrecki (basso) e Daniel Kaczmarczyk (percussioni).
Tra i 17 brani di cui l’album si compone particolarmente riusciti sono, a parere di chi scrive, l’interpretazione di Gajde Jano (“Vieni, Jana”), pezzo cruciale della tradizione serba dal caratteristico tempo in ⅞, in cui il cantante invita la donna amata a ballare il kolo, l’antichissima danza, verosimilmente di origini rituali, patrimonio delle regioni balcaniche; e il bell’arrangiamento di Jovano Jovanke (“O Jovana, Jovana”), canzone macedone del repertorio erotico.
Il viaggio nelle “quattro parti d’Oriente” si chiude con una Melodia żydowska (“Melodia ebraica”), seguita da uno struggente Jiddisch Lied, Scha Still (“Silenzio”), e infine da un brano celebre del repertorio popolare polacco, Świeci miesiąc (“Brilla la luna”): significativo momento di ritorno, e insieme di conferma della pluralità di apporti a cui la stessa identità nazionale è debitrice.
Fedele al suo nome, nel corso degli anni il gruppo manifesta una sua fluidità nella composizione: sia per l’ingresso di nuovi elementi (Violina Janiszewska, voce; Adam Dziewałtowski, percussioni; Katarzyna Bogusz, voce; ed altri ancora) sia per un approfondimento nella ricerca musicologica che a sua volta richiede la collaborazione di specialisti in strumenti autoctoni, come il dudek, flauto ad ancia doppia della tradizione armena, o la zurna, antenata dell’oboe diffusa nei paesi arabi. Il secondo album, Jakhana Jakhana (2002), esplora infatti paesaggi più ampi: lo testimonia, ad esempio, l’inclusione della melodia popolare magiara Csillagok (“Stelle”), momento cardine della musicologia di scuola ungherese perché studiata già da Béla Bartók e raccolta nei suoi Gyermekeknek (cfr. János Nagy, Énekelt szövegek kiasztikus alakzatainak elemzéséhez, in Journal of the Society of Hungarian Linguistics, vol. 107, n. 2, 2011).
Negli album successivi il gruppo acquista una maggior capacità, o piuttosto una vocazione più netta, al riuso e alla rielaborazione del materiale tradizionale, abbandonando in parte il paradigma della raccolta: qualche volta sovrapponendo un testo originale ad una melodia tradizionale (è il caso, ad esempio, di Staro nevestinsko in Ajotoro, 2008;); qualche altra volta, e sempre più spesso, componendo versi e musica, come Amijasa nell’album Usztijo (2004)
Fin dal suo esordio, e poi nel corso degli anni successivi, l’ensemble ottiene riconoscimenti prestigiosi tanto in patria quanto all’estero, e foltissimo è il calendario dei concerti, soprattutto in Germania, Austria, Svizzera, Francia, ma anche in Russia, India, USA. È interessante notare come il pubblico usuale dei Dikanda appartenga per lo più all’Occidente, ed è naturale chiedersi quanto grande sia il rischio che lo sguardo pecchi di quella deformazione che Edward Said ascrive all’orientalismo, forma particolarmente insidiosa di colonialismo (o nel migliore dei casi di mal dissimulato paternalismo) che continua sul piano culturale l’opera di “appropriazione” di cui l’Occidente è stato protagonista nel corso dei secoli. Inoltre, si può argomentare, chi ci garantisce che l’operazione “divulgativa” non finisca per snaturare il “manufatto”, o quanto meno per fornirne una versione “edulcorata”, adatta alla fruizione da parte di un pubblico che del contesto originario di produzione sa poco o nulla? E di certo non è del tutto priva di valore l’impostazione di chi ritiene che le forme di una cultura non siano dicibili se non restando rigorosamente all’interno di quella cultura medesima, e che quindi ogni applicazione di strumenti propri di una cultura estranea, “imperialista” od egemone, equivale a uno snaturamento senza remissione.
D’altra parte non è meno vero che mettendosi per questa via si rischia di impantanarsi in quella forma di solipsismo per cui non c’è possibilità di conoscere e comunicare e trasmettere che da noi stessi a noi stessi: dove invece, parlando in generale, resta da provare che sistemi organizzati di segni e significati propri di una cultura siano così disomogenei dai sistemi propri di un’altra così tanto che sia impensabile una traduzione, una conversione. In quest’ottica trascrivere, registrare, raccogliere non significa affatto addomesticare né snaturare: significa, piuttosto, aver cura, saper guardare, e porre le premesse di un discorso che è poi alla fin fine un discorso sull’uomo universale.
È anche essenziale evitare di cadere nell’errore di intendere le culture “altre” come ontologicamente date (anziché storicamente), e dunque immuni da ogni processo di contrazione o mutazione o contaminazione; immaginando magari che la preservazione della “purezza” sia un valore da perseguire in ogni caso e ad ogni costo. E del resto lo scopo che i Dikanda si propongono non soltanto non si esaurisce né in una volgarizzazione pura e semplice, né una registrazione e trasmissione rigorosa della Volksmusik, ma anzi questi due momenti sono soltanto i “poli” entro cui la ricerca del gruppo si muove, tendendo nel tempo a trovare una propria misura originale.
Risulta piuttosto sterile istruire paragoni con, tanto per fare un paio di esempi, l’opera del compositore e musicologo moravo Leoš Janáček, il quale esplora l’estrema raffinatezza della musica popolare del suo paese attraverso lo studio della prosodia della lingua ceca parlata; o con la Nuova Compagnia di Canto Popolare in Italia, insuperabile per la perfezione con cui rigore filologico ed esigenze dell’arte si fondono in una reinterpretazione straordinaria di quell’impasto tra musica colta e musica popolare che è la canzone napoletana del ‘6-’700. In questi casi, come in molti altri, il terreno della ricerca è piuttosto ristretto nel tempo e nello spazio; ben altrimenti vasto è l’ambito in cui si muovono i Dikanda, il cui spazio-tempo appartiene all’immaginario in misura non minore di quanto appartenga alla geografia e alla storia. Esplorare l’Est, nelle sue mille incarnazioni e nelle sue infinite risonanze, e parlarne con linguaggio intellegibile a chi “è rimasto a casa”: forse non è estraneo a questo programma lo spirito della grande tradizione antropologica polacca, di un Bronisław Malinowski per esempio, o della scuola di reportage che fa capo a Ryszard Kapuściński.
E così, seppur ridimensionato da una forma di scrittura musicale che ha nella contaminazione la sua ragion d’essere, lo scrupolo filologico tiene comunque il suo posto. Lo testimonia l’uso, sempre crescente, di strumenti autoctoni; e ancor più la fedeltà alla lingua originale: polacco, ucraino, bielorusso, slovacco, russo, serbo, macedone, bulgaro, ungherese, armeno, curdo, greco, yiddish, romani, …
A proposito di romani, l’album Usztijo contiene un arrangiamento della celeberrima Ederlezi, canzone della tradizione gitana dei balcani il cui nome deriva da quello turco (Hıdırellez) di una festa pagana della primavera, poi sincretizzata con la celebrazione di San Giorgio. Goran Bregović ne inserì un arrangiamento nella colonna sonora del film Dom za vešanje (“Il tempo dei gitani”) di Emir Kusturica, e nell’immaginario occidentale la melodia resta unita al ricordo della voce veramente notevole di Vaska Jankovska che nel film ne è l’interprete. Tuttavia, la versione di Kusturica ha un che di enfatico, di intenzionalmente bohémien e balcanico a cui non è del tutto estraneo il rischio di scadere nella rappresentazione oleografica. Il lavoro dei Dikanda riesce a liberarci da questa incrostazione dell’immaginario, restituendo vitalità e verità alle parole senza tempo che esprimono insieme identità ed emarginazione:
Sa o Roma babo, e bakren chinen
A me, chorro, dural beshava
Romano dive, amaro dive
Amaro dive, Ederlezi