Dal regista di Essential Killing, Jerzy Skolimowski.
di Roberto Mazzarelli – (Cine)Visioni magazineApolide, così è stato definito il cinema di Skolimowski, autore che a detta di Tadeusz Sobolewski si è sentito sin da subito intrappolato “dall’identità polacca”. I film hanno difatti risentito dei numerosi spostamenti del regista, emigrato in numerosi paesi dal Belgio alla Francia, dalla Germania agli Stati Uniti.
In questa prospettiva, come ha osservato il regista e critico francese Jean Douchet, Deep End (1970) “ha tutto di un film inglese” a partire dalla splendida colonna sonora di Cat Stevens. Tuttavia, come è evidente, esso è stato influenzato del profondo amore di Skolimowski per la Nouvelle Vague francese. Solo due anni prima François Truffaut aveva girato Baisers Volés (Baci Rubati, 1968), secondo episodio dedicato alle avventure di Antoine Doinel, iniziato con Les Quatre Cents Coups (I 400 colpi, 1959).
Mike, il quindicenne protagonista di Deep End è un personaggio vicinissimo ad Antoine Doinel. Entrambi sembrano condividere un certo amore per le donne, pur mantenendo una certa inadeguatezza nei confronti della sessualità. Skolimowski racconta benissimo il dramma dell’adolescenza, le pulsioni incontrollate e violente che emergono nel corpo che cresce, matura e si trasforma. Come ha evidenziato ancora una volta Jean Douchet, Deep End inizia con la volontà del ragazzo di trovare una propria collocazione nel mondo. L’integrazione sociale passa inevitabilmente attraverso il lavoro, tappa definitiva dell’indipendenza. Ma unico scopo dell’adolescente è “il soddisfacimento totale del suo desiderio erotico e amoroso”. Ed è nel tentativo forsennato di raggiungere questo scopo che si cristallizza il dramma, poiché per la prima volta la vita si presenta come qualcosa di irraggiungibile. Il desiderio, per dirla alla Jacques Lacan, è inappagabile. L’oggetto che tanto desideriamo e cerchiamo risulta essere un surrogato di un oggetto perduto (per sempre). Nel tentativo di possedere la ragazza amata, Mike, si lascia sfuggire di bocca la parola “mamma”, come se quella donna che ora oppone resistenza alla sua iniziazione fosse solo una proiezione fantasmatica di un Edipo mancato.
Ciò che emerge è innanzitutto una visione oscena della donna. Susan, infatti, è una ragazza estremamente affascinante e consapevole della propria sessualità. Lei è una donna che con il proprio corpo possiede il maschio e ne amministra a proprio piacimento il suo godimento. In tal senso la sua figura rappresenta una presenza conturbante, per il protagonista e per lo spettatore che vede il film. Al pari del regista italiano Marco Ferreri, Skolimowski si dimostra autore sovversivo, rappresentando l’impotenza del maschio che si tramuta in violenza. Alla fine del film Mike potrà avere la sua Susan solo dopo averla uccisa. La prima volta del giovane si realizza in questo modo, abbracciando il corpo inerme della donna che ama, un corpo che improvvisamente ha perso la sua potenza vitale ed erotica.
Bibliografia
Furdal, R. Turigliatto (a cura di), Jerzy Skolimowski, Lindau, Torino, 1996.