Danni collaterali è uno degli ultimi contributi all’umanità di Zygmunt Bauman, una serie di saggi dedicati alle disuguaglianze e al disgregamento del welfare State.
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di Roberto Reale
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Il 13 febbraio 1991, durante la prima guerra del Golfo, uno strike statunitense prende di mira un rifugio nel quartiere Amiriya di Baghdad, uccidendo 408 civili. Il Pentagono accusa il regime di Saddam Hussein di ospitare deliberatamente civili in installazioni militari perché facciano da scudi umani; dato però che il tipo di armi impiegate esclude l’errore tecnico, si parla di danni collaterali (James Griffiths, Collateral damage: A brief history of U.S. mistakes at war).
Un memorandum corso per le mani dei piloti di caccia USA (USAF Intelligence Targeting Guide — AIR FORCE PAMPHLET 14- 210 Intelligence) definisce il danno collaterale come un danno non intenzionale, accaduto in conseguenza di un’azione militare orientata su obiettivi ben definiti (“unintentional damage or incidental damage affecting facilities, equipment or personnel occurring as a result of military actions directed against targeted enemy forces or facilities”). In altri termini, fare vittime tra i civili non è certo tra gli scopi delle azioni militari, ma quando capita si fa presto a liquidare l’accadimento come mero inconveniente, il cui costo è irrilevante di fronte ai massicci interessi che presiedono all’azione bellica.
Del resto quel tanto di orwelliana indeterminatezza della formula linguistica, a metà strada tra gergo ed eufemismo e neppure troppo lontana dal dileggio atroce di espressioni come soluzione finale o tecniche di interrogatorio avanzate (per le quali Deborah Cameron parlerà di verbal hygiene), basta e avanza per farne schermo dietro il quale nascondere i fallimenti delle operazioni militari:
Definire “collaterali” alcuni devastanti esiti delle operazioni militari lascia supporre che questi non siano stati messi in bilancio né al momento in cui l’operazione è stata pianificata, né al momento in cui alle truppe è stato dato l’ordine di entrare in azione; oppure che l’eventualità del loro possibile verificarsi sia stata considerata e soppesata, e tuttavia ritenuta un rischio che valesse la pena correre, alla luce dell’importanza degli obiettivi militari in gioco.
Così Zygmunt Bauman nell’Introduzione al suo Collateral Damage, uscito per Polity nel 2011 e dunque tra le ultime prove del sociologo della società liquida (il lettore italiano potrà consultare l’edizione Laterza, dal titolo Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell’età globale, 2013). Una raccolta di saggi che non tratta delle vittime civili in operazioni di guerra, ma che dal linguaggio militare, in quanto espressione caratteristica del contemporaneo, mutua innanzitutto il suo titolo; così come la cruda indifferenza dei decision takers sullo scacchiere bellico serve a Bauman da metafora, e forse anche da epitome, per un nuovo Discorso sulla disuguaglianza sociale nel mondo globalizzato.
La stessa scelta formale, raccolta di saggi anziché trattato sistematico, è funzionale all’indagine, perché frammentario e sfuggente è il mondo che emerge dal tramonto delle grandi narrazioni del XX secolo. L’ideale rousseauiano del contratto sociale, motivato dal bisogno di “trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato”, mantiene intatta la sua pregnanza: ma gli strumenti classici che ne garantivano l’esecuzione, vale a dire le istituzioni politiche emerse dal travaglio della rivoluzione industriale e rigorosamente fondate su base nazionale, si rivelano ormai inadeguate:
La globalizzazione dei capitali e del commercio delle materie prime ha raggiunto ormai un livello tale che nessun governo è più in grado, da solo o con altri, di far quadrare i conti.
La conseguenza immediata è lo smantellamento dei legami di solidarietà e di comune interesse su cui riposava, beninteso with mixed success, quel complesso di protezioni e tutele che garantiva non soltanto la diffusione di un livello minimo di benessere compatibile con la dignità inalienabile della persona, ma in ultima analisi la coesione interclassista all’interno degli stati nazionali. L’emergere della spinta globalizzante ha da un lato sottratto alla politica il suo potere, passato nelle mani delle grandi forze che operano sul mercato globale, e dall’altro costretto l’individuo entro i vincoli di un individualismo sempre più accentuato, dal quale pochi soltanto sanno trarre profitto, per sorte o per doti; ai più non tocca che di pagarne il costo.
Del resto, poco o nulla hanno da dirci sulla condizione individuale i parametri macroeconomici con i quali siamo abituati a descrivere la ricchezza degli Stati: non soltanto perché appunto tali parametri, calcolati su base locale, perdono progressivamente di senso in un mondo globalizzato, ma anche perché la forza di un qualsiasi sistema è quella del più debole dei suoi elementi:
Quando un impianto elettrico si sovraccarica, il primo componente a saltare è il fusibile. […] Un ponte non si spezza quando il carico che sostiene eccede la solidità media delle sue campate, ma assai prima: nell’attimo stesso in cui il peso del carico supera la capacità di portata di una sola di esse: quella più debole. La “capacità media di portata” dei piloni è una convenzione statistica che sulla funzionalità del ponte ha un impatto nullo o minimo.
La forbice tra i “vinti”, quelli di cui Verga diceva che “la corrente [li] ha deposti sulla riva”, e l’elite degli one-percenters (Rebecca Lake, How Much Income Puts You in the Top 1%, 5%, 10%?), tende ad allargarsi in misura proporzionale all’assottigliarsi del welfare state, originando un imponente accentramento di risorse nelle mani di pochi individui:
Mentre ogni anno la Tanzania suddivide i suoi 2,2 miliardi di dollari di entrate tra 25 milioni di abitanti, la banca Goldman Sachs ne guadagna 2,6 miliardi, che ripartisce tra i suoi 161 soci azionisti.
E neppure soltanto nel campo delle risorse finanziarie la disuguaglianza tende a crescere, ma in tutti i segmenti di una piramide Maslow adeguata alle esigenze della vita contemporanea: capitale sociale, conoscenza tecnica scientifica ed economica, employability in un mercato del lavoro sempre più sottratto alle logiche ed ai saperi tradizionali e aggredito dall’avanzare della macchina intelligente (Joel Mokyr et al., The History of Technological Anxiety and the Future of Economic Growth: Is This Time Different?, in Journal of Economic Perspectives, 29, 2015).
È un problema, scrive Les Gofton (Collateral Damage: Social Inequalities in a Global Age), di sogni infranti e progetti delusi. Il mondo così come le utopie del XIX secolo e i grandi sistemi politici del XX lo avevano immaginato, un mondo cioè fondato sull’ordine e la ragione, sull’incontro armonico tra uomo e natura, sull’aspirazione a un benessere universale da realizzare grazie all’onnipotenza dello Stato o alla capacità di crescita infinita dei mercati: questo mondo si sbriciola oggi nell’incertezza e nell’entropia della modernità liquida.
A riempire il vuoto provvede allora l’ubiquo canto delle sirene che ci invita al consumo. Individui-monade, ormai spogliati dei legami sociali che nascono da interessi comuni, non abbiamo ancora disimparato ad aver bisogno di un “senso”, o quantomeno di un suo surrogato. Il consumo, afferma ancora Les Gofton, diventa così “un atto morale; una modalità di connessione con gli altri e di impegno”.
Vi si aggiunge l’abbattimento delle barriere che le tecnologie social consentono, avviando una metamorfosi delle modalità del desiderio e l’invasione della dimensione privata da parte del pubblico. Non senza un pizzico di malizia Bauman cita l’osservazione del sociologo francese Alain Ehrenberg, secondo cui “il primo manifestarsi dell’ultima, moderna rivoluzione culturale” accade “la sera di un mercoledì d’autunno degli anni Ottanta, quando una certa Vivienne, una donna francese come tante”, dichiara davanti a milioni di telespettatori di non aver mai provato un orgasmo col marito sofferente di eiaculazione ante portas. La sfera sessuale, ormai ben oltre l’ipotesi repressiva di cui parlava Foucault, diventa essa stessa oggetto di consumo: danno collaterale anche questo, inestricabilmente legato allo scemare e all’indebolirsi dei legami umani.
Ma Bauman non si limita a guardare con occhio critico alla condizione contemporanea. La sua non è né un’invettiva né la stanca condanna dei mala tempora che soltanto denuncia la senescenza di chi la pronuncia. Tutt’altro. Dando prova di coraggio intellettuale e morale, oltre che di ammirevole disinvoltura nell’attingere a saperi disparati senza genuflettersi dinanzi a sterili catalogazioni accademiche, e infine mai a corto di ironia, il sociologo ormai ottantacinquenne invita a ribellarsi all’insensatezza e all’incertezza, a non vivere passivamente i nostri tempi ma a cercarne, non più prometeicamente ma come comunità globale di tutti gli uomini, uno spiraglio di senso:
Riassumendo, si potrebbe supporre che il compito di rendere genuina la libertà individuale richieda il rafforzamento, anziché l’indebolimento, dei legami di solidarietà che uniscono gli esseri umani. L’impegno a lungo termine che una forte solidarietà promuove potrebbe essere considerato tanto un bene che un male – così come l’assenza di impegni, che rende la solidarietà inaffidabile e disinibita. La coesistenza di pubblico e privato è «piena di rumore e di furore», come per Macbeth. E tuttavia, senza la loro contemporanea presenza la comunanza umana non sarebbe più concepibile dell’acqua senza la contemporanea presenza di idrogeno e ossigeno. Ciascuno dei due elementi ha bisogno dell’altro per mantenere una condizione sostenibile e sana. In convivenze di questo tipo, una guerra di logoramento equivale al suicidio di entrambi. Adesso, come in passato e nel futuro, la cura di sé e del bene dell’altro vanno nella medesima direzione e suggeriscono un’unica filosofia e strategia di vita. È questo il motivo per cui difficilmente la ricerca di un assetto definitivo tra privato e pubblico si fermerà del tutto. Come l’apparente turbolenza che ne caratterizza il rapporto.
È la proposta di un nuovo umanesimo.