di Robert M. Wegner, traduzione italiana a cura di Francesco Annicchiarico
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NORD
La scure e la roccia
L’ONORE DELLA MONTAGNA
Gli Shadoree sbucarono proprio da dove ci si sarebbe aspettato. Dodici uomini carichi come muli sopraggiunti dal bosco, diretti al versante orientale del pascolo. Si fermarono sul limite della foresta. Avevano l’aspetto di chi ha camminato per giorni senza fermarsi, sporchi, non rasati, affannati. Scendeva la sera e avevano il sole che gli brillava dritto di fronte, e la distesa del pascolo, delicatamente ondulata e ricoperta di neve fresca, dava una sensazione di pulito e di conforto. Li illudeva con la speranza di essere il tragitto più semplice e senza pericolosi trabocchetti.
Ovviamente mentiva.
Il primo degli uomini mise qualche passo in avanti, affondando nello strato soffice fino al ginocchio. Era chiaro che la neve risaliva solo alla notte precedente. L’uomo si sistemò meglio il grosso sacco che portava sulle spalle, sbraitò qualcosa al resto dei suoi e continuò ad avanzare, nell’idea di tagliare attraverso il pascolo, per la strada più breve. Gli altri lo seguirono a distanza di qualche passo. Un centinaio di passi dopo la guida si fermò, col respiro pesante, e fece segno al secondo della fila di sostituirlo. Attese che tutto il gruppo gli passasse davanti, prima di sistemarsi dietro. Cento passi dopo seguì un’altra sostituzione, poi un’altra ancora. Per essere uomini che avevano un’intera notte di cammino alle spalle, mantenevano un ritmo piuttosto elevato. Erano a metà strada, un quarto d’ora dopo.
E fu in quell’istante che furono traditi.
La neve esplose in decine di punti da entrambi i fianchi del lungo codazzo di uomini. Delle figure umane avvolte di pelliccia apparvero dai nugoli di polvere ghiacciata, brandendo le armi. Un grido tagliò l’aria:
«Guardia di confine! Gettate le armi!»
Gli Shadoree non ebbero neanche il tempo di sentirlo.
***
Un momento dopo era già tutto finito. Il tenente Kenneth-lyw-Darawyt osservava svogliato i suoi uomini verificare al coltello che nessuno dei banditi facesse finta di essere cadavere. Due, ancora vivi, vennero legati e sistemati in disparte. Quel pascolo non aveva più l’aria di un’oasi di pace: sulla neve calpestata, tra i cadaveri e le asce abbandonate, affioravano chiazze di rosso vivido. Qui e là ciuffi di prato di fine autunno.
«Maledetto panorama pittoresco», sussurrò all’orizzonte.
«Come, signor tenente?» il decurione accanto a lui gli rivolse uno sguardo incuriosito.
«Niente, niente, Varhenn. Dopo una notte passata nella tana mi viene sempre di parlare tra me e me. Le nostre perdite?»
Il volto tatuato del sottufficiale si rischiarò.
«Tre feriti. Solo uno è grave, è stato ferito al ginocchio e non può camminare.»
«Va bene, c’è da mandare il messo a Belenden, ad ogni modo. Tenete pronti renne e cani per quando il resto della compagnia sarà qui.»
«Sarà fatto.»
Il tenente voltò lo sguardo ai prigionieri.
«E loro due?»
«Uno è troppo giovane, l’altro è un idiota. Non ci servono a niente.»
«Questo lo vedremo.» l’ufficiale si rivolse al gruppo di soldati «Andan! Che ne dici di degnare il tuo comandante della tua preziosa attenzione?»
Andan-keyr-Treffer, il più giovane dei suoi decurioni, si avvicinò ubbidiente, e non erano di certo la pesante armatura a scaglie, il cinturone con sciabola e scure a manico corto a intralciargli il passo. Kenneth sapeva benissimo che non era questione di troppo zelo o di un atteggiamento servile. Dopo una notte trascorsa in una buca scavata nella neve, ogni frazione di movimento era come un miracolo. Il sottufficiale era basso e tarchiato, e inoltre peloso come un orso; a vederlo di notte per strada avrebbe fatto paura a chiunque. Il tenente sospirò e spostò lo sguardo verso l’altro decurione.
Varhenn Velergorf, con i baffi e i capelli grigi, la cotta di maglia che gli copriva il busto, i calzoni di pelle e la pelliccia di montone sulle spalle, pareva un brigante. Aveva tatuaggi blu, grigi e neri sulle guance, sulla fronte e sul dorso delle mani. Portava una barba lunga dieci pollici e reggeva una scure che sembrava un attrezzo da macellaio. Il metallo sul suo corpo era appiccicoso di sangue altrui. Porco cane, siamo messi peggio di una banda di assassini, pensò Kenneth. Niente di strano che annuncino il nostro arrivo, ogni volta che c’è un’adunata.
«Andan», si rivolse per primo al giovane decurione. «Raduna gli uomini. Voglio dirgli due parole. Poi andrete a cercare le cose degli Shadoree. Magari riusciamo a capire dove erano diretti.»
Il giovane fece un gesto che a stento poteva passare per un saluto militare.
«Sarà fatto. E lo stregone?»
L’ufficiale si irrigidì.
«Io non lo aspetto. Non ne sa più di noi, e causa soltanto guai. Non è che ho ordinato a Bergh di tenerlo a distanza per poi dover aspettare i comodi dell’onnipotente maestro», disse sarcastico. «Ah, Andan, niente taglio di orecchie, non a quei figli di puttana.»
«Va bene.»
«Muoversi!»
Il sottufficiale tarchiato si diresse verso i soldati. Kenneth si rivolse a Velergorf.
«Quando Andan avrà finito, manda gli uomini a preparare il rogo al confine del bosco.»
«Sarà fatto.»
«Poi vedremo cos’hanno da dire quei due. E per quanto riguarda l’adunata… Ti ricordi cosa ti ho chiesto prima?»
Il decurione dai capelli grigi abbozzò un sorriso.
«Me lo ricordo, signor tenente.»
«Allora tieni gli occhi aperti.»
Kenneth si voltò dall’altra parte, con lo sguardo diretto al sole che tramontava. Il pascolo aveva sempre un aspetto netto e tranquillo visto da quel lato. In quale merdaio ci siamo cacciati, pensò. Prima che sia tutto finito ci saremo dentro fino alle orecchie.
A qualche decina di passi dietro di lui, Andan aveva appena finito di mettere in riga il reparto. Diciassette soldati, un collettivo pittoresco, equipaggiato con un’imponente collezione di armature, elmi, scudi e le più disparate armi da offesa. Solo in tre erano quelli che si davano pena a indossare le cappe con le insegne della Guardia di Confine. Il tenente li raggiunse.
Sapeva egli stesso di non avere un aspetto migliore dei suoi soldati. Indossava una giubba di pelliccia su una blusa di panno grezzo, scarponi massicci e pantaloni di foca cuciti alla moda Aher, con la pelliccia rivolta all’interno. E poi una cotta di maglia rappezzata, un elmo semplice, la lunga spada e lo scudo rotondo col puntale. Se non fosse stato per la cappa grigio chiara con i due sei e la sagoma della testa di un cane Wessyr cuciti sul petto, lo stemma della Guardia di Cofine, nessuno tra i vivi l’avrebbe mai preso per un soldato dell’impero.
La Guardia di Confine era una di quelle divisioni dell’impero Meekhan, la cui storia risaliva ai tempi precedenti allo stesso Meekhan. Prima che l’impero muovesse i primi passi a nord dei monti Ansar Kirreh, su quelle terre regnava libera l’alleanza delle tribù Wessyr, la cui forza principale era costituita proprio dai reparti di montagna, conosciuti col nome di Guardia di Confine. Durante la guerra con Meekhan, la fanteria imperiale sbatté il grugno più di una volta contro la Guardia, che conosceva il campo di battaglia come le proprie tasche, suscitando negli aggressori stima e una certa ammirazione controvoglia. Dopo sei anni, l’impero terminò la guerra inaugurando il proprio protettorato sulle terre comprese tra il fiume Vanawen e la catena montuosa nota col nome di Grande Dorsale. Nei decenni successivi, il protettorato scivolò senza problemi nell’impero, completando l’annessione. Ciò accadde per via di quella giudiziosa politica imperiale che riconosceva pieni diritti civili agli indigeni, gli stessi di cui godevano i nativi di Meekhan, impicciandosi poco o niente nelle abitudini e tradizioni locali. Sempre più spesso l’armata imperiale, celebre per il proprio pragmatismo, assoldava la Guardia di Confine, apprezzata per valore e virtù. I guardiani si dimostravano migliori della fanteria pesante regolare su tutti i terreni sterrati, i sentieri di montagna, nei bacini profondi e sulle cime di montagna. Gli venne permesso persino di mantenere l’iniziale divisione per reparti, che contavano da cento e da mille uomini, già a quel tempo indicati coi termini di compagnia e reggimento, secondo la terminologia di Meekhan. Rispetto ai reggimenti di fanteria meekhan, i reparti della Guardia di Confine erano più piccoli, ma più rapidi e con maggior raggio di manovra. Perfetti per gli sconti di montagna. I guardiani reclutavano soldati tra i montanari, permettendogli di conservare le proprie armi e adottare lo stile di lotta che preferivano, perché in quelle circostanze era raro che ci si scontrasse in campo aperto, scudo contro scudo. Come risultato, il piccolo contingente di guardiani sembrava una banda di assassini. E in quel momento il tenente Kenneth-lyw-Darawyt li teneva proprio tutti di fronte a sé.
«Attenti!» il decurione Andan-keyr-Treffer aveva una voce imponente, per essere così basso. Le fila si raddrizzarono, chi più chi meno riuscendo in una parodia di una posizione di attenti.
«Oggi siete stati fortunati.» Kenneth si fermò a parlare davanti ai soldati, puntandoli col proprio sguardo severo. La maggior parte di essi era più vecchia di lui, porco cane. «Sapete perché? Perché quelli lì hanno camminato notte e giorno senza riposare. Una metà è caduta alla prima salva, e gli altri erano troppo stanchi per difendersi come avrebbero dovuto.»
Fece una pausa, dando a tutti un attimo per digerire quelle parole.
«È stato un buon combattimento. Il prossimo potrà essere molto più duro. Ancora non sappiamo dove si è nascosto il resto del loro clan, né quanti siano di preciso», non sapeva cosa farsene delle sue mani, quindi le faceva penzolare dal cinturone. «Adesso aspettiamo Bergh e lo stregone. Il decurione Velergorf vi troverà qualcosa da fare. Il resto di voi si occuperà di tirare su le tende e accendere il fuoco. Dopo dodici ore in un fosso, ci meritiamo tutti un pasto caldo.»
Gli rispose un mormorio di consenso.
«Prima di cominciare dobbiamo ripulire. Degli Shadoree non deve restare nessuna traccia, questi erano gli ordini. È un lavoro schifoso, ma possiamo farlo solo noi.»
Dalle fila non provenne alcun suono.
«Ma solo dopo mezza tazza di vodka», stavolta il mormorio fu ben più allegro. «E per quelli che non hanno vergogna delle proprie insegne, un bicchiere pieno.»
Con un gesto eloquente, Kenneth indicò tre soldati che portavano delle cappe grigie di lana listata di una striscia bianca.
«Rompete le righe.»
Il tenente sospirò. Non si sentiva mai sicuro di sé in circostanze come quella, e peggio ancora, aveva la sensazione che anche gli altri se ne rendessero conto.
«Signor tenente», Velergorf apparve di fronte a lui come sbucato dal terreno. «Vorrei parlarle della consegna di poco fa.»
«Certo. Andiamo più in là.»
Si allontanarono di qualche passo.
«Allora?»
Kenneth non doveva fingere con Velergorf. Erano in servizio insieme da cinque anni, prima in decuria come soldati semplici, in seguito Kenneth era diventato decurione e Velergorf il suo braccio destro. Dopo aver assunto il comando della neonata Sesta Compagnia, Kenneth gli aveva affidato metà decuria, avendo piena fiducia nelle conoscenze ed esperienze del vecchio amico. E poi lo prese da parte e gli chiese di guardargli le mani, e di rinfacciargli gli errori.
«Va bene. Vado dritto al punto», sussurrò il decurione. «Non c’è niente di peggio di un comandante che dopo un lavoro finito si mette a vantarsi e rimproverare gli uomini. Ma eviti di dividerli in buoni e cattivi a seconda della cappa che indossano. Potrebbero esserci problemi.»
«Come faccio a obbligarli a portare le insegne della nostra compagnia?»
Il decurione raccolse un pugno di neve e cominciò a strofinarla sul filo dell’ascia per pulire il sangue.
«Hanno bisogno di tempo», riprese dopo un po’ il vecchio soldato. «Questa cosiddetta compagnia è un insieme di quattro decurie messe insieme da reparti diversi, con l’aggiunta della reclute. La decuria di Andan viene dalle Braghe Nere di Berhoffitz, chi non ne ha sentito parlare? Bergh, dell’Ottava Compagnia del Dodicesimo Reggimento, dai Cani Selvaggi. Anche loro sono famosi. E gli uomini che ha affidato a me, sono le Canaglie di Gallen. La Prima Compagnia, il quarto reggimento. Tutti fedeli e con una certa fama. Hanno operato per anni degni del proprio nome. E ora invece? Li spostano tutti al sesto reggimento, che esiste da nemmeno un anno, che non ha alle spalle alcuna grande campagna né vittoria, e che in effetti si sta ancora formando. E come se non bastasse, gli uomini si ritrovano arruolati nel sesto, perché il reggimento non ce la fa a gestire un clan di montanari selvaggi. Si sentono ingannati. Sono stati prelevati dai propri reparti e spostati nel reggimento più giovane della Guardia. E nella compagnia più nuova, con al comando un giovanotto sconosciuto.»
«Non ho chiesto io il comando.»
«L’ho sentito dire. Non solo giovane, anche scemo…»
Kenneth scoppiò in una fragorosa risata. Alcuni soldati lì vicino si voltarono a guardare.
«Bene», anche Velergorf rise. «Se ride il comandante, vuol dire che tutto va bene. Buono anche che lei sia, come dire, beh….»
«Rosso?»
«Esatto, signor tenente. Tutti sanno che alla montagna piacciono i capelli neri. Questo pregiudizio vale ancora, da qui allo Jehyr orientale.»
«Allora dovrei ringraziare mio padre, per aver sposato la ragazza più rossa dei dintorni, anche se tutti lo avevano dissuaso dal farlo. Ma non voglio parlare di me, voglio parlare dei miei uomini, Varhenn. A cos’altro dovrei stare attento?»
«Gli dia soltanto altro tempo, signor tenente.» il decurione sfiorò l’ascia sul cinturone e si grattò la barba. «Qui si tratta anche della, ehm, qualità della sostanza. Quando Berhoffitz, Wer-Yllen e gli altri ricevono un ordine per gli uomini del nostro reggimento, ci mandano i meno validi. E non gliene voglio, io farei lo stesso. Non perché quei ragazzi non valgano niente, ma perché sono meno esperti, più selvaggi, sono quelli che affilano le lame quando c’è un agguato nell’aria. Una parte di loro vede come una punizione il far parte del Sesto Reggimento. Una punizione immeritata.»
«E allora? Dobbiamo arrivare al punto di diventare famigerati come le Braghe Nere? Ci vorrà tutta la vita. Peraltro breve, se dovessi anche fare questo…»
«No, signor tenente. Per cominciare basta mostrare agli uomini che possono fidarsi di lei. Che lei sa il fatto suo e non è arrivato al comando con l’aiuto di uno zio presente al comando.»
«Io credevo che stesse andando tutto bene.»
«Certo. Quando lei ha dato l’ordino di dividere la compagnia per attraversare nottetempo il valico di Call-Ander, ho pensato che fosse un’idiozia. In questa stagione avremmo dovuto trovare neve fino alle orecchie. Saremmo sprofondati senza renne e cani. Ma di neve ne abbiamo trovato qualche sputo, e basta. Poi lei ci ha dato l’ordine di acquattarci qui , nelle tane, sotto la neve, per metà della notte e quasi un giorno intero. Ma quando gli Shadoree sono sbucati dal bosco, da dove aveva previsto lei… Beh. Magari è stato un caso, ma se ne parlerà a lungo.
«È da sei mesi che ci sfuggono, perciò…»
Il decurione scosse il capo.
«Non mi deve spiegazioni. Lei è un ufficiale. A dire il vero, lo è solo da un mese, ma non vuol dire niente. Lei ha dimostrato a tutti di avere fiuto e di conoscere la montagna. Ora basta solo dimostrare che non è stata fortuna.»
«Vorrei crederci anch’io.»
Varhenn Velergorf sorrise.
«La montagna è così, signor tenente. Qui solo i bambini e gli idioti sono contenti.»
Stavolta il decurione scoppiò in una risata sonora.
«Questa la racconteranno di sicuro.» Velergorf sputò nella neve senza farsi problemi. «Hanno sgozzato una banda di Shadoree e poi si sono messi a scherzare tra i cadaveri. Lei che ne pensa, signore, quando ci raggiungerà il resto della compagnia?»
«Stai pensando a quei venti contadini e dieci cani? Se Bergh ha mantenuto il ritmo che gli ho detto di tenere, dovrebbero essere qui prima di mezzanotte.»
«E poi?»
«Ancora non lo so. Deciderò quando Andan troverà qualcosa che ci aiuti a scoprire cosa facevano quei banditi.»
Velergorf si rabbuiò in volto.
«Andan. Appunto, signor tenente. Bisogna tenerlo a bada.»
«A bada?» Kenneth capì cosa volesse dire, ma voleva che il decurione confermasse i suoi sospetti.
«Tutti quei suoi “sarà fatto”, “certo”, quello stare sull’attenti come se avesse un bastone su per il culo, quel dimenticarsi il saluto ufficiale e così via. Tra un po’ si metterà a chiedere come mai ha ricevuto quell’ordine e non un altro, invece di fare ciò che gli viene detto. E gli altri prendono esempio proprio da lui. È pericoloso. Lei è più giovane di lui, signore, e ha meno anni di servizio. Lui… ha bisogno che gli si ricordi chi è al comando.»
«Me ne occuperò» Il tenente annuì. «Grazie.»
«Si figuri. Mi pagano per questo.»
Sorrisero entrambi allo stesso momento, anche se era una battuta scontata.
«Tu che dici», Kenneth indicò i corpi senza vita al suolo «Secondo te dove potevano essere diretti?»
L’anziano decurione si grattò la barba incolta di due giorni.
«Da qui? Soltanto a Gyreten o verso gli Alti Pascoli.»
«Mmm… Non saprei. Mi sembra troppo chiaro.»
Entrambi sentirono uno scricchiolio sulla neve. Andan-keyr-Treffer li raggiunse, tenendo qualcosa in mano. Aveva un’espressione strana.
«Né Gyreten, né gli Alti Pascoli», disse. «O io sono un mezzosangue Aher.»
Mostrò cosa aveva trovato. Era un sandalo strano. Aveva una suola di legno, con molti chiodi conficcati sotto da cui si agganciavano alcuni cinturini di cuoio.
«Ci si combatte con queste scarpe», chiarì, senza alcuna necessità di farlo.
«Lo so, sono fatte per non scivolare sul ghiaccio. Cos’altro c’è?»
«Arpioni e cavi. Fatti come si deve. Si vede che sanno come usarli.»
«Piccozze?»
«Una a testa.»
Kenneth serrò le mascelle.
«Sapete cosa vuol dire, vero? Quei topi sono nascosti dall’altra parte del Vecchio Gwyhren.»
«Impossibile.» Velergorf indicò la parete bianca che si profilava verso nord. «Dovrebbero essere pazzi per tentare di attraversare il ghiacciaio.»
«Quelli sono pazzi. Sono sicuro che durante la tratta abbiano perso la metà delle donne e dei bambini, ma sono passati lo stesso e si nascondono dall’altra parte. Ecco perché non riusciamo a trovarli da sei mesi.»
L’anziano decurione gli rivolse uno sguardo focoso.
«Lei sapeva, lei l’aveva pensato! È per questo che ci ha fatto nascondere qui.»
«Ho rischiato.» Kenneth allargò le mani per conferma. «Come ho già detto, li stiamo cercando da sei mesi, sia il nostro reggimento che altri due ancora. Nel frattempo abbiamo stanato persino le marmotte dalle loro tane, e quelli del clan Shadoree riescono a spuntare da non si sa dove e spariscono nel nulla. Stanno uccidendo uomini in tutta la provincia. Ma non si sono mai allontanati più di tre, quattro giorni di marcia dal ghiacciaio.»
Andan scosse il capo.
«E se si fossero nascosti dall’altra parte? Avrebbero dovuto scontrarsi con gli Aher entro tre giorni.»
SUD
La spada e le braci
PERCHÉ TI AMO PIÙ DELLA MIA VITA
Quel giorno la causa di tutte le liti, i bisticci e i battibecchi in città fu senza dubbio l’afa. Il problema non era tanto quel calore incandescente sceso dal cielo che aveva prosciugato la maggior parte dei pozzi e delle fontanelle, che aveva reso i pascoli intorno a Gerowint una distesa scura, e aveva ridotto così tanto il livello dell’acqua nelle fosse che le papere potevano a stento bagnarsi la coda. E neanche il porfido cittadino su cui ci si poteva friggere le uova, o il polverone smosso dal vento rovente che finiva negli occhi e nella gola.
Tutto ciò era relativamente normale in questa stagione.
Era piuttosto l’atmosfera, densa, nervosa, come satura di parole irripetibili e accuse ingiuste. Un giorno come quello era perfetto per fare una siesta tranquilla sotto un pergolato ombroso, con un calice di vino freddo in mano e una giovane serva che recitava poesie erotiche a fil di voce.
Aerin-ker-Noel schiuse gli occhi con grazia, cercando di materializzare quest’ultima immagine con la forza della volontà. Niente da fare. L’aria del salone era appena respirabile, la coppa che stringeva in mano era piena di una roba simile al piscio di una cavalla malata di reni, e la voce che riempiva tutto lo spazio era aspra, catarrosa e spiacevole.
E ovviamente, non stava recitando alcuna poesia erotica.
«Cinque oreg a pezzo, Arinoel. Cinque. È un prezzo giusto.»
Il nomade impalato a qualche passo da lui, con indosso calzoni di sacco, pantofole di pelle e una giubba di montone sul dorso nudo, si dondolava sulle ginocchia leggermente piegate, come una pantera appostata per l’assalto. I suoi due accompagnatori annuivano, torturandosi nervosamente i baffi. La circostanza cominciò a diventare scomoda.
Aerin gli aveva ordinato di presentarsi lì da lui non appena scesi da cavallo, sebbene adesso stesse quasi per svenire dal tanfo. Quei tre avevano sulle spalle più di centocinquanta miglia di tragitto attraverso la steppa, per condurre lì oltre mille capi di bestiame.
Ma se gli avesse concesso di lavarsi, di rinfrescarsi e mettersi comodi, in abiti freschi, la contrattazione si sarebbe portata almeno fino a mezzanotte, su una cifra più alta di almeno due oreg.
Lui diede un sorso al liquido nel bicchiere, e se ne pentì subito.
«No, Harrib figlio di Aran. Noi gente di città non siamo stupidi. Siamo chiusi tra quattro mura, ma sappiamo cosa succede nelle steppe. Voi avete trasportato il bestiame per quel deserto roccioso, senza passare per i pascoli, come fate di solito. La maggior parte dei capi è sfiancata, smunta e debole. Tutta pelle e ossa.»
Harrib scosse il capo rasato.
«Tu li hai visti quei venti capi che abbiamo portato in città. Erano grassi e muscolosi. Cinque oreg sono pure pochi per bestie così.»
«Quelli sono i tuoi venti capi personali, Harrib. Se dici che il resto della mandria è come quelli, allora siamo d’accordo per cinque oreg…»
Gli occhi del nomade brillarono.
«Ma prima manderò i miei uomini alla mandria per scegliere i miei venti capi. Stabiliremo il prezzo dopo aver visto i miei e i tuoi.»
Harrib sussurrò:
«Ma così è contro le usanze, Arinoel.»
«Le usanze cambiano, figlio della steppa. Dobbiamo crearne di nuove, adatte alle nuove circostanze. Sono due oreg per capo.»
I nomadi sussultarono.
«Due oreg?! Due! Ma questo è furto! No… non… no…»
La mano di uno di loro raggiunse il manico del coltello imbrattato di sangue, pendente dal cinturone.
Più che vederlo, Aerin avvertì dietro di sé una porzione d’ombra assumere una forma d’uomo. Una sagoma imponente, celata da metri di stoffa avanzò leggermente in avanti.
«Tu sei ospite in questa casa, amico.» Aerin sapeva benissimo l’effetto che quella voce faceva agli estranei, un tono giovane, simpatico eppure legato inequivocabilmente al sibilo di una lama appena estratta. «Se punti un’arma verso il padrone di casa, commetti peccato mortale.»
I nomadi si irrigidirono. L’uomo impulsivo ritirò la mano dal manico del coltello, Harrib si fece pallido come calce e il terzo uomo mise un passo all’indietro e levò i palmi in segno di tregua.
La sagoma in mantello restò immobile per qualche istante, poi riprese la postazione precedente, a ridosso della parete.
«Quattro» Harrib ribatté con vigore. «Quattro oreg per capo.»
Il mercante finse titubanza. Ci riusciva sempre benissimo. Chinò piano il capo e prese a grattarsi la barba. Restarono tutti impalati per qualche istante.
«Sette oreg per tre capi, Harrib, se mi porti in città altri trecento capi come quella ventina da esposizione.»
Stavolta fu il nomade a far finta di riflettere. Nei suoi occhi neri si accese una scintilla d’astuzia.
«La Guardia non farà mai passare trecento capi di bestiame. E poi dovrei mandare la metà dei mie uomini. Non posso lasciare tutta la mandria senza un’adeguata difesa.»
Si stiracchiò un baffo nervosamente.
«Undici oreg per tre capi.»
«Undici? Per undici oreg le bestie dovrebbero essere anche migliori di quelle che hai portato da esposizione. Dimmi un po’, Harrib, quanti capi feriti avete?»
Il nomade restò in silenzio. Si intuiva che stesse riflettendo sul margine di menzogna da applicare.
«Qualcuno», affermò infine, fissando il mercante dritto negli occhi. «Una decina, mi sa, il tragitto non è stato così duro.»
«Questa è una buona notizia, amico mio. Tanto per me quanto per te. Ciò vuol dire che la siccità non è così pesante, come dicono tutti.»
«Esatto, Arinoel. Gli abbeveratoi non erano prosciugati, e c’era foraggio in quantità. Venire non è stato più difficile degli anni precedenti.»
«Quindi, prima che passino dieci o quindici giorni, qui avremo pastori da Dehreni, Was’reggel, Lo’regist e da chissà quali altre tribù. Ci sarà tanto bestiame, e i prezzi cadranno. Non posso darti più di otto oreg per tre capi.»
Il nomade aveva l’aria di chi stesse per mordersi la lingua.
«Noi ci siamo mossi prima degli altri, Arinoel, per questo abbiamo trovato acqua e foraggio. Le bestie di quelli che non sono stati furbi come noi arriveranno ridotte cento volte peggio delle nostre.»
Il mercante nascose un sorriso dietro una mano e chinò leggermente il capo.
«Mi inchino di fronte all’intelligenza del popolo Almeandal. E solo per questo, sono pronto a pagare tre oreg a capo.»
«Dieci oreg per tre capi e vi porterò altri centocinquanta capi come la ventina da esposizione. Potrai toccarli tu stesso con mano, Arinoel.»
«Quando?»
«Siamo a quindici miglia dalla città. Stasera potrai vedere la mandria.»
Aerin scosse la testa.
«Stasera sarò occupato, Harrib. Anche domani e dopodomani. Poi sarà festa. Che ne dici di portarli qui, diciamo, tra quattro giorni?»
Il nomade ebbe un sospiro affranto.
«Non va bene, Arinoel, non va affatto bene. Pensavo di vendere la mandria e tornarmene a casa prima che il sole prosciugasse l’acqua dagli abbeveratoi. Se non puoi comprare, allora andrò da Garareth o alla gilda di Besteth…»
Aerin non si scompose, seguì nella spiegazione.
«No, Harrib, così non si può fare» lo interruppe. «Tuo padre ha fatto affari prima con mio padre, e poi con me. Ti conosco come uomo onesto e rispettabile, no, non fermarti, io credo nella tua onestà e per questo di darò nove oreg e mezzo per tre capi, se porterete la mandria dodici miglia più a ovest, fino a Horest.»
I nomadi si scambiarono uno sguardo titubante. Ora bastava solo una spintarella.
«A Horest ho alcune rimesse e delle armerie. Ci tengo un sacco di armi da vendere a prezzi ottimi…»
Alzò un po’ la voce sapendo di aver fatto centro.
Harrib annuì leggermente.
«È un prezzo corretto, Arinoel. Domani porteremo la mandria a Horest.»
Sganciò una piccola otre dal cinturone, versò del liquido lattiginoso sulla mano e ne spruzzò un po’ davanti a sé.
«Nove e mezzo per tre capi.»
Aerin svuotò il proprio bicchiere nello stesso punto in cui il nomade aveva versato il liquido, ringraziando gli dei di non doverne più bere.
«Nove e mezzo per tre capi.»
Da quell’istante le negoziazioni erano terminate.
«Vi darò delle lettere e manderò qualcuno dei miei. Una volta sul posto sbrigherete tutto col mio amministratore.»
Harrib ebbe un ghigno sarcastico.
«Il vecchio Galaf, eh? Vecchia volpe. Ci spellerà vivi.»
«I lupi di steppa se la cavano sempre, figlio di Aran. E Galaf non è così terribile come si dice…»
Il nomade ridacchiò.
«E secondo te perché ho preferito fare il prezzo con te, invece che con lui, eh Arinoel? Mio padre diceva sempre che si fa prima a tirare fuori l’acqua da una pietra che mezzo soldo da quel vecchio taccagno.»
Anche il mercante si mise a ridere.
«Proprio per questo vi mando da lui, Harrib. Proprio per questo.»
Restarono a fissarsi per qualche istante, poi si sorrisero con rispetto.
«Che i tuoi passi ti conducano sempre a una fonte, Arinoel.»
«E la tua mandria sia prolifica come erba giovane, figlio di Aran.»
I nomadi si inchinarono, il mercante rispose col medesimo gesto di cortesia.
«Un’ultima cosa, Harrib.» Li trattenne all’uscita. «Che vuol dire tacan… tacca… che vuol dire?»
Il terzetto sorrise all’unisono.
«Questo resta un segreto, Arinoel. Il vecchio Galaf è già abbastanza maligno di suo.»
Uscirono seguendo il servo, continuando a ridacchiare. Aerin restò seduto e immobile, poi si voltò verso l’arazzo che copriva quasi l’intera parete.
«Ora potete uscire.»
L’arazzo, che illustrava una mandria di cavalli selvaggi al galoppo stagliati al tramonto del sole, si mosse leggermente, rigonfiandosi. Un cavallo si staccò dalla parete e due corpi snelli irruppero nella sala.
«Non spingere!»
«Sei tu che spingi.»
«Non è vero!»
«È vero!»
«Padre!»
Lo strillarono entrambi all’unisono. Il mercante fissò i suoi due figli con finta pazienza.
«Vi ho permesso di assistere alle negoziazioni, ma vedo che vi siete annoiati. Erath, magari è ora che tu ritorni ai tuoi compiti di aritmetica. Isanell, tua madre sostiene che tu non conosca ancora come si deve l’ortografia di Meekhan occidentale.»
La ragazza magra, dai capelli biondi, gli occhi azzurri, fece il broncio mentre si rigirava tra le dita la punta del nastro blu che le cingeva la vita. L’azzurro della cintura strideva orribilmente con il crema dell’abito. Lo aveva fatto apposta per far arrabbiare sua madre.
«In questa nicchia manca l’aria, e lui non fa altro che agitarsi.»
«Davvero?!» Il ragazzo, più basso di lei di almeno una testa, finse un sobbalzo per provocarla. «E lei puzzava così tanto che per poco non sono svienuto.»
«Svenuto, scemo» sua sorella gli dedicò una smorfia di disprezzo.
Però vedendo l’espressione di suo padre si ammansì subito.
«Vieni qui, signorina.»
Compì un passetto verso suo padre.
«Più vicino.» Il dito di suo padre si piegò inesorabile. «Ancora di più. Basta così.»
Aerin tirò piano col naso.
«Essenza di rose di tua madre. Cento oreg l’oncia. Ti ci sei fatta il bagno, vero?»
Il maschio scoppiò in una risata, le guance di sua sorelle si arrossarono.
«Padre, io…»
«Non c’è problema, Isanell. Sono contento di vedere che le cose dei grandi cominciano a piacerti. Ormai sei quasi nel tuo sedicesimo anno, il baule della dote comincia a scricchiolare.»
Abbassò il capo, distese le mani. Faceva sempre così, da quando aveva tre anni.
«Il figlio del barone Erskan ha appena compiuto vent’anni e cerca moglie. La tua bisnonna ti ha promesso al principe kaa-Rodrahe. Credo che inviterò il barone a caccia nella nostra residenza d’estate. Pare che Banish abbia due falchi nuovi. Farai conoscenza col baronetto, e io due chiacchiere con suo padre.»
Lei non resse, sbatté i piedi come un cucciolo di capra mentre gli lanciò uno sguardo truce.
Aerin sospirò.
«Parlerò dopo con tua madre. Ma adesso», si sfregò le mani «Vorrei sapere cosa avete imparato stando dietro quell’arazzo.»
«Che un dodicenne che non si lava puzza come un cavallo.»
«Isanell!»
«Chiedo scusa, padre. Gli hai detto di venire qui appena scesi da cavallo per farli sentire sporchi, puzzolenti e poveri, vero?»
«Esatto, ma sappi che non è una tecnica efficace sui nomadi. Erath?»
«Li hai prova… procava… provocati per fargli tirare fuori il coltello, e poi Yatech li ha spaventati.»
«Per poco non morivo dallo spavento, padre.»
Il ragazzo si mise a ridere.
«Sei un cafone. Yatech li avrebbe fatti fuori con una mano sola, vero Yatech?»
La sagoma nel mantello ebbe un movimento impercettibile.
«Non sarebbe successo, il nomade non voleva usare il coltello.»
«Appunto, figli miei. Harrib conosce e rispetta le tradizioni, quindi non c’era alcun pericolo. Ma in effetti, tutto ciò mi ha aiutato un po’.»
«Un po’? Ti ha fatto scendere il prezzo di un quinto.»
«Acuta osservazione, mia cara. E dopo cos’è successo?»
Il ragazzo si grattò il capo.
«Io non… non lo so. Perché gli hai detto di portarti altre trecento mucche?»
«Sei uno scemo. Nostro padre voleva verificare quanti fossero i capi migliori della mandria. Loro si erano detti pronti a portarne altri centocinquanta, quindi tanti erano quelli davvero di prim’ordine. Il resto sarà di qualità più bassa, ma qualche giorno sui pascoli, con gli abbeveratoi pieni, di certo migliorerà il loro aspetto.»
Aerin fissò su di lui uno sguardo soddisfatto.
«Perfetto. Quindi, sappiamo che hanno almeno duecento capi di ottimo bestiame. E ad Horest abbiamo ancora pascoli verdi e da bere per la mandria intera. Tra dieci giorni potrò venderli per cinque, sei oreg a capo.»
«Mi regali un vestito nuovo?»
«Se tua madre ti perdona per la storia del profumo…»
«Padre…» Isanell esclamò piccata.
«Padre?» Erath aveva ancora un’altra domanda.
«Sì?»
«Gli hai detto di quelle armi in vendita e poi loro sono stati d’accordo. Non è che ci sarà qualche problema nelle steppe?»
Aerin sentì un accesso di orgoglio. Era il suo sangue. Bastavano due parole e suo figlio arrivava all’esatta conclusione meglio di un governatore.
«Questo non ci riguarda. L’estate ogni tanto arriva un po’ prima, e secca la steppa un po’ di più del solito. Allora i nomadi si fanno la guerra per i pascoli e l’acqua per il bestiame. Il governatore già lo sa, e tra sei mesi tutti i limes verranno fortificati.»
«E la città?»
«La città? E cosa può farci del male, a noi dietro le mura? Non preoccuparti, andrà a finire che l’anno prossimo il manzo costerà più caro.»
L’uomo si stiracchiò, fino a far scricchiolare le articolazioni.
«E adesso va’. E tu, mia cara, torna in camera tua e aspetta tua madre. Senza fare quella faccia, per favore.»
Si alzò e si diresse verso l’uscita. La sagoma addossata alla parete si mosse e lo raggiunse.
***
«Mi ami?»
Erano stesi a riprendere fiato, madidi, sulle labbra il sapore dei loro corpi.
«Sì.»
«Quanto?»
«Di nuovo? Perché?»
«Rispondi!»
«E se non lo faccio…?»
Reagì come un felino e fu su di lui in uno scatto. Gli strinse i polsi, li teneva in una mano, con l’altra gli faceva il solletico.
«Rispondi!»
Lui resistette qualche secondo, poi si strattonò fino a far cigolare il letto.
«Piano. Che ti sentono.»
«Chi oserebbe mai entrare in camera mia? Proprio dove posso tenere il viso scoperto?»
«Non divagare, taccagno che non sei altro.»
Lui rise.
«Sai almeno che vuol dire?»
«Mi fido ciecamente di Harrib. Mio padre dice che nessuno riesce a dire parolacce come un nomade.» Gli infilò un dito sotto l’ascella. «Rispondi, allora.»
«Te l’ho detto già tante volte.»
«Una in più non fa danno. E così arriviamo a mille. Ovviamente, solo per oggi…» Gli toccò le labbra delicatamente. «Stai sorridendo.»
«Sì.»
«Stai ridendo di me», disse lei minacciosa.
«Ma cosa dici. Sorrido perché mi sono innamorato di te. Ero solo, tra stranieri, lontano da casa. Ma tu mi hai insegnato cosa fosse un sorriso. Sei stata come un ruscello fresco in mezzo al deserto.»
«Sono stata?»
«Lo sei stata, lo sei e lo sarai. Sei come il fuoco nella steppa e la pioggia di primavera, come il sole che albeggia e l’arcobaleno, la rugiada sui petali di un fiore e il falco che caccia la preda. Tutte quelle cose insolite e miracolose che mi fanno sentire felice e…»
Mentre lui parlava lei si chinò sempre più su di lui, fino a zittirlo con un bacio delicato. Un attimo dopo scivolò più giù con l’orecchio sul petto.
«Dillo ancora» gli chiese sussurrando.
«Cosa?»
«Lo sai. Perché mi ami.»
«Ancora, seyqui allafan?»
«Che vuol dire?»
«Sulle nostre montagne, tra le rocce bruciate dal sole, si può ancora trovare qualche rigagnolo. Lì accanto spesso crescono dei fiori piccoli, chiari. Si chiamano così. Sono un dono della Grande Madre, sono un simbolo di speranza.»
«Non voglio che mi parli di religione. Parla di noi.»
«Di noi?»
«Sì.»
«Ma almeno ti ricordi il nostro primo incontro?»
«Sono passati almeno, eh… quasi tre anni.»
Lei continuò a passare le dita sul viso di lui.
«Stai sorridendo di nuovo.»
«Fu una scenata niente male. A tua madre per poco non prese un colpo…»
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