Gombrowicz e Żuławski contro l’assordante dis-ordine della realtà (del cosmo).
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di Mara Giacalone
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Witold Gombrowicz non ha bisogno di presentazioni, da queste parti; abbiamo scritto diverse cose su di lui e in merito a lui. Quello che farò oggi lo investe in pieno ma, come dire, più trasversalmente perché parleremo sì di Cosmo, ma della versione cinematografica.
Con una produzione franco-portoghese del 2015, il regista Andrzej Żuławski ha deciso di portare sullo schermo l’ultima grande impresa di uno degli autori polacchi più discussi del XX secolo. Żuławski non è certo un pivellino o qualcuno che non sappia fare il suo lavoro e con la messa sullo schermo di questo strano e complicato testo possiamo ben affermare che ha raggiunto sicuramente una vetta molto importante anche se non mancherò di muovere critiche nei suoi confronti. Ma un passo per volta.
Facciamo un breve recap della trama (del film!) per avere tutti gli elementi sotto gli occhi. Abbiamo due studenti, Witold (Jonathan Gênet) e Fuchs (Johan Libérau) che cercano una stanza e capitano in una casa dove vengono messe a pensione delle camere. Qui abita la bizzarra famiglia Wojtys: la moglie, soprannominata Pallina (Sabine Azéma), suo marito, lo strano signor Leon (Jean-François Balmer), la domestica Catherette (Clémentine Pons), la figlia della coppia, Lena (Victória Guerra) e il marito di quest’ultima, Lucien (Andy Gillet). Prima di arrivare alla suddetta casa, il giovane Witold, studente in legge ma scrittore in erba, si imbatte in un passero impiccato con un filo blu. Evento del tutto strano e stonato, siamo d’accordo, ma anche inerme: la cosa poteva essere un dettaglio insignificante. E invece a Witold questa cosa rimane in testa e ne parla a cena. Lucien racconta di un pollo impiccato. E quindi? A Witold e Fuchs queste non sembrano solo ragazzate e a “conferma” ci sono le macchie sul soffitto, a forma di freccia. E il rastrello che porta a dei pezzi di legno impiccati. Durante questo soggiorno ecco che iniziano a notare una serie di elementi che stona, creano dis-ordine, generando nell’animo del protagonista abisso e confusione. Le cose strane non finiscono ma anzi si accumulano e una notte, dopo aver visto la signora Pallina battere con un’ascia, dopo aver spiato Lena e Lucien nella loro intimità, Witold, accecato da questo immenso nonsenso, strangola il gatto di Lena per poi impiccarlo in giardino. Il giorno, oltre al ritrovamento del cadavere, Catherette trova un rospo vivo nella sua camera. Lo scompiglio dilaga e si decide per una gita fuori porta, al mare, dove la giovane coppia sta costruendo la casa. Durante il viaggio si fermano in una specie di gola con tanto di neve dove imperversa una forte tempesta (ci tornerò dopo a questo) e incontrano un prete che accolgono tra di loro. Una volta ripreso il viaggio, giungono finalmente a destinazione e torna il sole. Si organizza una cena in compagnia. Witold e Lena rimangono finalmente soli mentre in un crescente clima di tensione recitano a memoria il Magnificat di Pessoa fin quasi a baciarsi se non fosse che vengono interrotti. Witold ha successivamente un dialogo con il vecchio Léon, il quale, come al suo solito dice tutto e niente. Una volta calata la sera, i giovani si incamminano nel bosco dove poco dopo Lucien si toglierà la vita, impiccandosi (ovviamente!) chiudendo così la serie. Il finale del film ve lo spiego dopo.
Premessa: di cose da dire ce ne sono tantissime, ma cercherò di limitarmi a quelle che ritengo importanti. Primo di tutto, il problema della trama. È, grombrowiczanamente parlando, un problema di forma. Leggendo il riassunto di cui sopra, non si riesce a farsi un’idea precisa di quello che (non) succede. La chiave sta proprio qui e sicuramente il mezzo filmico e le scelte di Żuławski si rivelano molto funzionali per rivendicare il senso del romanzo. Non c’è un’azione vera e propria, un plot forte e sicuro che va avanti a testa alta determinato nel suo svolgimento e compimento. C’è, piuttosto, una realtà in costruzione aperta a qualsiasi possibilità in base alle nostre scelte. La vicenda si forma man mano che Witold sceglie -più o meno coscientemente – di accogliere i più diversi elementi mettendoli in fila e cercando di dar un ordine al dis-ordine che imperversa. Scegliendo di seguire la strada del passero impiccato, Witold leggerà, da quel momento in poi, altri segni come collegati a quello precedente senza che le cose lo siano davvero ma è lui, la sua facoltà di creare, che impone un (non) senso, una (non) forma al mondo. E il tutto raggiunge una dimensione ossessiva. Nel film, questa è pienamente ottenuta continuando a presentare in sequenze più o meno veloci, gli elementi della catena: passero impiccato – pollo impiccato – macchie sul soffitto – rastrello – legnetti impiccati – gatto impiccato – la bocca perfetta di Lena – la bocca “difettosa” di Catherette. Żuławski insiste nella sequenza tanto da farla diventare una sorta di leitmotiv che provoca ansia e disperazione nel giovane Witold.
“Cosmo parla del crearsi di questa storia, del crearsi stesso della realtà, di come essa nasca,
goffamente e maldestramente, dalle nostre associazioni”.
(da W. Gombrowicz, Testamento. Conversazioni con Dominique de Roux)
È un climax dell’assurdo, del ridicolo, di una passione dirompente, violenta e impossibile da gestire. Assume quasi i tratti di un disturbo ossessivo-compulsivo quel ripetere spasmodico di gesti, azioni, parole e soprattutto pensieri. Bellissime alcune scene che colgono in pieno il meccanismo devastante, beffardo e agghiacciante di Gombrowicz. Cade una ciotola di piselli che si sparpaglia: tutti si fiondano su queste simpatiche palline verdi che scivolano ovunque, però Léon li infilza uno a uno con uno stuzzicadenti, sullo sfondo Pallina ripete una tiritera senza senso, Fuchs si taglia un dito, le gambe di Lena vengono astratte e messe in evidenza mentre si tirano e allungano. In parole povere un tentativo fallito di afferrare l’inafferrabile, e cioè: la forma, la realtà, il senso.
Ma andiamo avanti, andiamo oltre. Żuławski fa una serie di operazioni interessanti nel proporre questo film che magari per alcuni possono sembrare dettagli, invece saltano all’occhio. L’ambientazione è francese mentre il romanzo si svolge invece a Zakopane. Sul perché di questa scelta, mi sembra che si possa essere concordi nell’affermare che serve a richiamare due momenti della vita dell’autore, la giovinezza – Gombrowicz trascorse un periodo in Francia per studio – e gli ultimi anni della sua vita. Ma non è l’unico riferimento diretto: il giovane del film dice chiaramente che il suo nome deriva da un autore polacco, un certo Gombrowicz, che la madre leggeva. Quello che non mi convince pienamente di questo Witold, è che viene messo in ridicolo. Invece che essere preda e vittima di questa folle ossessione in una tensione drammatica, il tutto viene smorzato e attutito dal suo comportamento da finto letterato che cita Sartre, Dostoevskij e Shakespeare come se fossero i suoi compagni di banco. E questa farsa viene marcata ancora di più dal suo compagno Fuchs che nel film assume un ruolo quasi in primo piano, come se si volesse farli passare per una coppia investigativa alla Holmes & Watson. Se ci si fermasse qui, storcendo il naso, si potrebbe anche accettare, ma quel che a mio avviso stona, è l’atteggiamento estremamente dandy alla Oscar Wilde che assumono i due giovani, quasi da far pensare ad una relazione omosessuale – si vedano i baci, gli abbracci, il dialogo a letto. Non c’è nulla di male, non c’è nulla da nascondere. Il fatto che il vero Gombrowicz abbia avuto relazioni con altri uomini non è un segreto e tantomeno un tabù, ma ho l’impressione che tale elemento sia volutamente messo in risalto e me ne domando il motivo.
Ancora due punti prima di chiudere. Il passaggio in montagna e il finale. Nel film appare molto più evidente un qualcosa che forse nel libro passa meno rumorosamente e cioè la gita, la quale è leggibile come una sorta di rito di passaggio: i personaggi lasciano la casa per purificarsi – come afferma Léon – passano da un valico per poi giungere al mare. Tre parti, un movimento ascendente dal peccato al bene. La pellicola inizia con Witold che cita l’inizio della Divina Commedia, ora dal basso, salgono in montagna giungendo in una specie di gola dove piove e a terra c’è la neve. Un’aquila vola e Lena erompe in un silenzioso urlo in cui la sua bellissima e perfetta bocca è messa in evidenza dal rossetto e occupa tutta l’inquadratura. Siamo in una sorta di purgatorio dove i personaggi sono percossi dalle intemperie e -simbolicamente- puniti perché nessuno di loro è senza macchia, ognuno di loro ha impiccato o battuto entrando in quella spirale ossessiva. Manca solo Catherette, ma d’altronde, lei la punizione la porta sulla bocca tutti i giorni. Dopo di che si giunge al mare, il cielo è limpido e tutti sono tornati di buonumore: il Paradiso. Ma è una gioia fittizia perché anche qui la forma li ha seguiti e non li lascerà incolumi ed ecco il discorso senza senso di Léon che, con il suo giocare con la lingua e le parole altera la realtà, e poi l’ultima impiccagione, quella di Lucien. Perché si è tolto la vita? Forse per contrastare il non senso, o molto più probabilmente per chiudere il cerchio delle impiccagioni autosacrificandosi a questa realtà infernale all’interno della quale noi crediamo di avere un ruolo decisivo e di cui siamo invece solo e soltanto succubi.
“Cosmo ci fa entrare per vie ordinarie in un mondo straordinario, anzi dietro le quinte del mondo”.
(da W. Gombrowicz, Testamento. Conversazioni con Dominique de Roux)
Siamo arrivati al the end e Żuławski ci propone un finale doppio. Siamo tornati a casa, Fuchs e Witold si salutano e quest’ultimo si allontana da solo. Oppure: siamo tornati a casa, Fuchs saluta Witold e Lena che sono ora fidanzati. Allo spettatore la scelta, perché se possiamo condizionare a tal punto la realtà da voler a tutti i costi leggere una serie di elementi casuali come incatenati, allora possiamo anche scegliere come far finire la storia.
In conclusione: un film sicuramente da vedere. Al di là delle mie personali critiche, il risultato finale è sorprendente e riesce a trasmettere il non senso e l’ansia davanti alla realtà e al mondo. Il lavoro degli attori, inoltre, è davvero impressionante, soprattutto la mimica di Jonathan Gênet (Witold) e di Victória Guerra (Lena). Certamente non è un film leggero, bisogna essere disposti a non capirlo e a doverlo vedere una seconda (una terza) volta per poter avvicinarsi meglio al mondo di Gombrowicz e, in questo caso di Żuławski.
Un ultimo appunto. Il film viene indicato come dramatic mentre per il libro ho visto usare tutte le peggiori categorie. Chiariamo una cosa una volta per tutte, Cosmo non è un thriller né è un noir – e no, nemmeno un poliziesco hardboiled. È metafisico, quello sì. Ma fate un favore, se vi interessate a Gombrowicz, per una volta, smettete di usare le categorie di genere che, come la critica letteraria insegna – e come lui stesso ha più volte detto – sono fallaci e chiuse talmente ermeticamente e impediscono ai romanzi di trasmettere le loro preziose sfumature.
Quando finirà questo dramma senza teatro,
o questo teatro senza dramma,
e potrò tornare a casa?
(Fernando Pessoa, Magnificat)