Canzone del cuor di serpente – Radek Rak #1

Il brano che segue è tratto dal romanzo Baśń o wężowym sercu di Radek Rak (Powergrah, 2019). Tutti i diritti appartengono a Radek Rak e a Wydawnictwo Powergraph.
I diritti per la traduzione italiana sono liberi e gestiti in esclusiva da Nova Books Agency s.c.
Per informazioni: agent@novabooksagency.com 
La traduzione dal polacco è di Francesco Annicchiarico.

 

***

 

Del canto dannato

 

Si racconta che tutto ebbe inizio di sera.

La sera, la sera

La selva il canto rivela.

Chi per primo l’ascolterà

Dal bosco mai uscir potrà.

 

«Quale canto, nonno?» chiede Kuba.

Vecchio Topo farfuglia qualcosa nella sua bocca sdentata. Inafferrabile, forse parole o magari il solito mormorio dei vecchi. Il carro ricolmo di argilla sobbalza sui fossi. Vecchio Topo e Kuba sono in viaggio da Kopalina, perché lì c’è l’argilla migliore dell’intera zona. C’è ancora molta strada da fare, e per strada, si sa, cantare e raccontare storie fa un gran bene.

Dal ruscello e dall’erba falciata

Sale il canto inghirlandato

Nel nome del Padre e del Figlio

Non ascoltarlo è il mio consiglio.

 

Il vecchio si umetta le labbra screpolate, adocchia il ragazzo. Ha gli occhi chiari e non c’è traccia in essi delle sue settantadue primavere.

«Come sarebbe, quale?» chiede. «Il canto delle rusalki, di chi sennò?»

A queste parole, Kuba sprezzante soffia il muco prima da una narice, poi dall’altra. E la seconda volta gli cade sui calzoni, visto che il carro sobbalza sui sassi. Vecchio Topo, osservando la scena, gracchia col suo ghigno sdentato, dal ridere gli dondola la pappagorgia sulla gola.

«Le rusalki», ripete tra sé e sé.

È l’ora del tramonto ovunque, ma ora, in questo bosco di faggi, è già notte fonda. Dormono persino gli uccelli e solo un merlo si attarda, accennando sempre la stessa frasetta. Il profumo del sambuco stordisce i sensi. Il bosco è proprio questo: faggi, sambuco e buio.

«A San Giovanni le rusalki escono nella radura, proprio qui vicino. Cantano, danzano, solo per ammaliare i maschi. Appena senti il richiamo, tappati subito le orecchie con la cera, così non senti e non le ascolti. Meglio ancora se canti qualcosa di chiesa o una litania di maggio alla Madonna, o dici mille volte la preghiera: Gesù mio chirieleison, perdona i miei peccati, fino a che le parole ti entrano dentro e fanno parte di te. Perché se ti metti ad ascoltare, sei finito. E se ti avvicini a guardare le rusalki allora sei perso, corpo e anima. Quelle lì ballano mezze nude, solo con la camicia da notte addosso, e se le guardi anche solo una volta non troverai mai più posto nel mondo degli uomini.»

«State invecchiando, nonno, e pensate sempre alla stessa cosa», Kuba si prende gioco di lui, ma Vecchio Topo non reagisce. A parte rimettersi a cantare:

Ehi, quel canto che seduce

Al giogo ti conduce

Dal tuo destino strappato verrai

E dal bosco mai più tornerai.

Gli alberi si diradano, tra i rami spicca l’azzurro della notte. Il carro arranca per la strada in discesa, verso la campagna. Il sole è sparito già da molto oltre le montagne, ma splende ancora come fosse sottoterra, perché il suo bagliore filtrato lumeggia ancora il mondo, la paglia dei tetti e la chiesa.

Vecchio Topo e Kuba superano i fossi e i salici che li costeggiano. Sono dodici salici e Vecchio Topo dice che si tratta dei dodici apostoli del buon Gesù, e l’ultimo, quello secco e sforacchiato dai vermi, è Giuda Iscariota. Vecchio Topo racconta molte cose e Kuba non sempre crede a tutto.

Prima della discesa dell’arrivo, Kuba si tira in piedi sul carro. Si sforza di origliare, ma dal bosco non arriva nessuna voce. Solo i grilli cantano nell’erba.

II

Della danza alla luna 

Si racconta che Kuba e Vecchio Topo lavorassero a servizio presso la locanda di Rubin Kohlmann a Kamienica, come due goy di shabbat.

«Ohi, ohi, ohi, chemiprendauncolpo! Che sarebbe questa roba?», l’ebreo piazza un tocco di argilla sotto il naso prima del ragazzo, poi del vecchio. «Questa la chiamate argilla? Che argilla e argilla, dico io! Ecco come si finisce a mandare due goy a fare l’argilla. Con un pugno di fango e merda di vacca!»

Nessuno dei due apre bocca per rispondere, il vecchio principia persino a rullarsi del tabacco. Sanno bene che Rubin ha bisogno di sbraitare, dato che è l’unica distrazione che si concede. E si lamentava dei suoi goy di shabbat più di qualsiasi cosa.

I goy di shabbat svolgevano tutto ciò che a un ebreo l’ordine vietava di fare in casa e alla locanda, o ciò che di solito non aveva voglia di fare, di shabbat e non solo. Kuba e Vecchio Topo non si lamentavano, anche se quel brontolone di Rubin era perennemente insoddisfatto per qualsiasi cosa, si strappava la barba, borbottava e mandava a quel paese pure il dio dei suoi padri.

Però Rubin era un uomo a posto, per essere un ebreo. Del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti: con una moglie vecchia inchiodata al letto, il figlio rabbino e la figlia meshuga, cioè pazza, era impossibile essere cattivi. Forse era per questo motivo che tutti lo chiamavano Kohlkopf, senza neanche troppo nascondersi, come a voler vedere se il locandiere fosse davvero capace di infuriarsi. D’altronde, cose così era sempre meglio dirle a un ebreo che a un vossignoria, perché l’ebreo il lavoro lo paga e ogni tanto, di domenica, sgancia anche una botticella di vodka. Ma soprattutto, l’ebreo non mena, giacché un vossignoria, per decreto di sua maestà l’Imperatore da Vienna, aveva facoltà di somministrare al villico venti e più mazzate a seconda del castigo, e non di meno a donne e bambini, con la differenza che per le donne e i bambini non si usava il bastone, ma un frustino di betulla.

Oltre la finestra di quella sera spiccava un bagliore limpido, perché la luna era sorta prima del tempo. In quella penombra era tutto più nitido che di giorno. Di giorno le forme si mescolavano fino a cancellarsi, e i colori si fondevano insieme e capitava che tutto apparisse come velato da una tenda, o da una cortina fumosa. Ma durante la notte della luna tutto è acuminato, come tagliato nella carta, solo con meno colori. La casa, la locanda, il salice ricurvo in cortile, tutto è nero. Mentre gli aghi teneri dei larici intorno al casolare sono soffici e bianchi, più della neve. È un giorno di inganni, un giorno da ebrei.

Kuba sta per andare a dormire quando si accorge di lei. Che come sempre si arrampica sul tetto spiovente della locanda, quasi una donnola o uno spirito della notte. Su, su fino al colmo con il segnavento. Per un istante si riposa.

E poi comincia a ballare.

Danza con le braccia all’insù, con quel passo trepidante da gitana. Scuote la testa a destra e sinistra, tra oblio e passione, i capelli scuri le cascano sul viso come un’onda, quasi dotati di una propria esistenza serpentesca. Emerge dalla luce della luna, come scolpita nell’ebano. Kuba sa cos’è l’ebano perché Rubin Kohlmann possiede un cofanetto fatto di ebano, e le vossignorie dignitarie dell’ufficio di corte hanno in casa addirittura tutto il mobilio di ebano. E ora, che è notte, Chana Kohlmann è nera, dunque splendida.

Al mattino non sarebbe più stata così bella, perché la luce avrebbe mostrato le pustole sul suo viso di adolescente e i denti troppo lunghi, storti e prominenti come zanne di carpa. Perché ad essere sinceri la figlia di Rubin è secca e brutta.

La notte è ancora lunga, e la notte ha le sue leggi.

Kuba resta impalato a guardare per un momento, ma poi decide di sgattaiolare fuori. Supera il cortile a passo felpato e si arrampica sul tetto del pollaio, e da lì sul cornicione che corre lungo il primo piano della locanda, da cui si può raggiungere senza sforzo il tetto. Tutto zitto zitto, senza il minimo rumore per non spaventare la ragazza, e nemmeno allarmare i Kohlmann che, in quanto ebrei, sono sempre pronti a fare baccano. Eppure Vecchio Topo l’aveva detto, non una, non due volte, che non si può svegliare chi balla sotto la luna, altrimenti l’anima si impaurisce e scappa via. E anche se gli ebrei un’anima non ce l’hanno, Kuba non ha nessuna intenzione di svegliare Chana, perché potrebbe scivolare e cadere. E dire che, di giorno, con la luce del sole, la ragazza si spaventa persino di salire cinque pioli della scala, altro che tetto della locanda.

Chana sta danzando lungo la linea di colmo e lascia cadere intorno a sé alcuni foglietti, carte scritte, pezzetti di fogli strappati. Sembrano grossi fiocchi di neve. Su ognuno di questi campeggiano delle scritte, lunghe o brevi, su alcune soltanto uno o due segni. Tutto scritto in ebraico, tutto storto, con quelle lettere stanche e basse da staccare e schiacciare. Forse si tratta di preghiere. Forse sono formule magiche. Forse sono questo e quello, ché proprio nella Bibbia c’è scritto che gli ebrei, a cominciare dallo stesso Abramo, sin dalla notte dei tempi hanno provato a costringere Dio a fare molte cose, per sottometterlo alla propria volontà. Se c’era qualcuno a dover conoscere le formule magiche per gabbare nostro Signore, Dio, quelli erano gli ebrei, e nessun altro.

Chana sta danzando e Kuba cammina sul tetto per avvicinarsi a lei, mezzo piegato come una scimmia delle terre dei Mori. Afferra con delicatezza i polsi sottili e gelidi della ragazza. Due passi soltanto per scendere insieme. La giovane ebrea segue Kuba come un cucciolo affettuoso, sebbene sia appena tornata dalle lande selvagge del proprio inconscio, se lui la lasciasse riprenderebbe subito la danza. Aderisce tutta intera a Kuba, tanto che a lui sussulta il cuore in modo strano.

È martedì, e di martedì non viene mai nessuno alla locanda, quindi Rubin Kohlmann e sua figlia vanno sempre a dormire presto. L’uomo bussa sulla porta della cucina. Il chiavistello cigola, il vecchio ebreo scivola fuori e si stropiccia gli occhi impiastricciati dal sonno.

«Chemiprendauncolpo! Chana!»

«Ancora una volta a ballare sul tetto. Stateci più attento, quando c’è la luna.»

«Qualcuno ha lasciato la porta aperta. Grazie, Kuba. Sei un bravo ragazzo.»

«Buonanotte, signor Kohlmann.»

«Sogni d’oro, Kuba.»

 

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