L’Albania socialista secondo Margo Rejmer

Błoto słodsze niż miód - Rejmer

Con il suo terzo libro, Margo Rejmer approda al reportage duro e puro con Błoto słodsze niż miód dedicato all’Albania durante il socialismo.

di Salvatore Greco

Poco meno di trentamila chilometri quadrati di estensione che ospitano due milioni e ottocentomila persone, meno di quante non ne abitino nei confini dell’area metropolitana di Roma. L’Albania contemporanea in numeri è questo: un Paese piccolo, ma con cui l’Italia ha rapporti antichissimi. Dai tempi dell’Illiria romana passando alle migrazioni delle future comunità arbareshe in fuga dagli Ottomani per arrivare a pagine oscure come l’occupazione mussoliniana dell’Albania, i ventimila migranti albanesi sbarcati dalla nave Vlora nel ’91 a Bari, la fondazione nel 2014 di Agon Channel, il canale all news delocalizzato in Albania e lasciato alle cure di Antonio Caprarica.

In mezzo a tutto questo, storie di generazioni dall’una e dall’altra parte dell’Adriatico in un rapporto antico di cui sappiamo tuttavia molto poco. Come molto poco sappiamo del periodo comunista dell’Albania, una finestra durata quasi cinquant’anni, dall’immediato dopoguerra fino a pochi mesi prima dello sbarco della Vlora. Ho chiesto a una decina di amici italiani, tutti laureati e quasi tutti umanisti, di farmi un elenco degli stati socialisti che gli venivano in mente. In nessun elenco mancavano l’URSS, la Polonia, l’Ungheria, la Jugoslavia, Cuba, la Cina o il Vietnam, ma l’Albania è venuta fuori solo due volte di cui una con dubbio.

Błoto słodsze niż miód (Fango più dolce del miele), l’ultimo libro di Margo Rejmer uscito poche settimane fa in Polonia naturalmente per Wydawnictwo Czarne, è l’opera in grado di colmare questa mancanza. 332 pagine di reportage raccolti in giro per l’Albania che raccontano la realtà del socialismo reale in salsa albanese, la sua nascita tra le fila dello stalinismo ortodosso e l’isolamento sempre più radicale in seguito ai contrasti ideologici e concreti con i giganti del comunismo in terra: l’URSS e la Cina. Quella del socialismo albanese è la storia di un Paese piccolo, arretrato, economicamente fondato su un’agricoltura male in arnese, che insegue un ideale di purezza e ortodossia e che diventa velocemente altro: paura, fame, repressione, paranoia.

I personaggi di questo libro sono uomini e donne che hanno vissuto sulla propria pelle, o su quella dei propri cari, le ferite di un sistema totalitario da manuale, fedele rappresentazione delle peggiori distopie orwelliane. Per la maggior parte si tratta di storie di detenzione, epigoni delle centinaia di migliaia di albanesi che hanno affollato le prigioni dello Stato sotto il potere di Hoxha. C’è chi è stato mandato dietro le sbarre per essere imparentato alle persone sbagliate, chi ha letto e divulgato libri vietati dalla censura, passando per la variegata galassia di quelli che hanno osato dubitare ad alta voce delle sorti del socialismo albanese e subito venduti alle autorità dalle persone più insospettabili in un mondo in cui la delazione è moneta corrente. Błoto słodsze niż miód racconta le loro storie costruendo un diorama surreale di sofferenza e impotenza, di cecità e isolamento, tutto accaduto di fronte alle coste pugliesi. Quello che ne viene fuori è un libro armonico e complesso, che unisce racconti ed esperienze slegate in un’unica smisurata preghiera.

Da un punto di vista letterario, quest’ultima uscita determina un passo molto maturo da parte di Margo Rejmer nella scrittura di reportage. Ai lettori che la conoscevano come autrice del romanzo drammatico-grottesco Toximia e che (per ora solo in polacco) hanno avuto modo di scoprirla come narratrice lirica e intensa della capitale rumena nel suo reportage/diario di viaggio Bukareszt. Kurz i krew, questo libro arriverà con un’intensità profondamente diversa. Come la Rejmer stessa ha raccontato nell’intervista concessa a PoloniCult qualche tempo fa, Błoto słodsze niż miód è un libro con una genesi profondamente diversa rispetto ai suoi libri precedenti, distaccato, distante, radicato in un lavoro lungo anni fatto di faticoso ambientamento e integrazione nella cultura albanese. Per farla breve, l’autrice non ha preso a cuor leggero il suo compito di reporter e per raccontare mezzo secolo di storia albanese e di storie dei suoi protagonisti, ha vissuto quel Paese e ha incontrato la diffidenza della gente, sforzandosi di parlarne la lingua e di carpirne a pieno il sistema di valori.

L’effetto cercato è pienamente riuscito e la tecnica, sulla scia del premio Nobel Svetlana Alekseevič, di nascondersi il più possibile e dare voce direttamente ai suoi protagonisti è decisamente riuscito. Il ventaglio di voci anche molto diverse tra loro ricrea perfettamente il senso di claustrofobia che l’Albania di Hoxha doveva suscitare nei suoi cittadini, rende omaggio alla sacralità dei testimoni e alle loro sofferenze e crea uno scenario facile da cogliere nella sua unitarietà anche non conoscendo a menadito le vicissitudini storiche dell’Albania socialista.

Altro notevole pregio di un libro scritto con tale sensibilità e discrezione è che Margo Rejmer non si erge -come diversi altri reporter più anziani e referenziati di lei- a saggio della montagna e dogmatica profetessa della fine della storia dopo il crollo del socialismo e la morte di Hoxha. L’attitudine didascalica purtroppo tipica di molti altri autori polacchi di reportage che hanno raccontato realtà ex-socialiste è assente in questa voce giovane e profondamente rispettosa che si limita a raccogliere, raccontare e inquadrare le storie che le vengono consegnate, lasciando ai loro protagonisti l’onere e il diritto di valutare.

“In molti ti diranno che il comunismo in Albania non è finito perché al potere ci sono gli stessi di prima e nessuno è stato condannato davvero. Che cos’è la democrazia? Il voto dovrebbe essere libero ma qui da noi la gente vota perché qualcuno di un dato partito gli ha trovato un lavoro o perché gli hanno promesso cinquanta euro, perché vogliono ottenere qualcosa in cambio. È vero, oggi abbiamo la possibilità di fuggire, ma dove? Nessuno nel mondo vuole noi albanesi.
Una volta, se tenevi la bocca chiusa, eri al sicuro. Oggi puoi anche gridare ma tanto non c’è nessuno che ti ascolti”.

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