A un mese dalla scomparsa di Zygmunt Bauman, un omaggio riferito alla sua opera più attuale: Stranieri alle porte.
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di Roberto Reale
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Basta un muro a proteggerci dalle invasioni? A questa domanda, apparentemente urgente e cruciale quanto nessun’altra, l’unica risposta possibile è che essa è mal posta; e decostruirne rigorosamente i meccanismi e le ideologie che vi si inscrivono, denunciandone tanto la drammaticità della storia che la produce quanto la perdita di senso che ne consegue.
Perché muro? Perché proteggerci? Perché invasioni? La scelta delle parole non è casuale, ma allude a una visione del mondo che, nel momento in cui si pone come narrazione egemone, esclude da sé ogni possibilità non solo di critica, ma di dialettica in senso lato. Nel momento presente interrogarsi sui presupposti di quella narrazione è dovere di coscienza civile, e non è senza significato che Zygmunt Bauman, il filosofo e sociologo polacco scomparso appena un mese fa, vi consacri il penultimo dei suoi scritti: Strangers at Our Door, Cambridge, Polity, 2016.
(La traduzione italiana, Stranieri alle porte, a cura di Marco Cupellaro per i tipi di Laterza, è appena giunta alla quarta edizione. Per recensioni italiane si vedano: Bianca Di Giovanni, L’eterna paura dei fardelli altrui, su L’Unità del 28 gennaio 2017; Monica Mattioli, Migranti e xenofobia: il dialogo per la convivenza civile, su Corriere del Mezzogiorno del 19 settembre 2016; e un articolo dello stesso Bauman, Dalla fede alla politica il tramonto del potere, su La Repubblica del 09 settembre 2016.)
Bauman scrive in inglese non soltanto perché, intellettuale emigrato nel Regno Unito dopo le purghe conseguenti al ‘68, egli appartiene ormai al milieu anglosassone; ma soprattutto perché la sua indagine investe i presupposti profondi della civiltà occidentale considerata come tipo universale, e si rivolge ad un pubblico non più circoscritto da confini nazionali.
L’Europa, dice Bauman, nonostante la sua tradizione dei Lumi e il cosmopolitismo di estrazione kantiana, ha esacerbato nel tempo una ostilità profonda nei confronti dello stranger, dell’altro; e questo nonostante la presenza del nomadismo e delle migrazioni come costanti antropologiche nel corso dell’intera storia dell’umanità (qui e nel seguito cfr. anche una recensione a firma di Nicolas Schneider apparsa sulla Review of Books della London School of Economics). Quali sono le radici dell’ostilità? Superando una lettura semplicistica in termini di competizione nell’accesso a risorse di fatto limitate (territorio, lavoro, sanità, …), Bauman assume da Bachtin la nozione di paura cosmica, quell’ansia disordinata che ci prende di fronte a un universo incognito, minaccioso, perturbabile; a un futuro fragile e incerto. L’altro, colui che da sponde opposte alle nostre si affaccia sulla nostra terra, colui che con noi condivide un’umanità di base ma ha diversi da noi colore della pelle, lingua fede costumi; costui diventa appunto incarnazione di questa minaccia pervasiva e incontrollabile, specie quando il suo affacciarsi si atteggia, al nostro sguardo sgomento, a silenziosa invasione. Possiamo sederci sulla riva, scrive Bauman citando Robert Winder, e implorare la marea di non sommergerci, ma sarà ben difficile che la marea ci presti ascolto e che il mare si ritiri: è la condizione psicologica di chi si sente sotto assedio. D’altra parte alla radice della nostra fragilità stanno fatalmente due determinazioni dell’uomo contemporaneo: l’individualizzazione (individualization) e la priorità della prestazione (society of performance).
Citando Ulrich Beck, Bauman riconosce che nel nostro modello di civiltà è l’individuo a dover farsi carico, nella sua solitudine, di problemi che hanno invece un’origine esterna, sociale (it is now individuals who are charged with the all but unfulfillable task of finding, individually, solutions to socially produced problems): compito evidentemente destinato al fallimento. Nel momento in cui l’obbedienza ad un capo o a l’aderenza a un valore fissato da altri sono finalmente svuotate di senso, l’uomo è libero di dedicarsi al soddisfacimento esclusivo dei desideri che appartengono alla propria sfera privata (as long as our mots d’ordre are no longer obedience, law and obligations to be met, but liberty, desires and a penchant for enjoying their satisfaction); il prezzo da pagare è però alto. Ciascun uomo diventa un Prometeo esausto e antieroico (our plight is a DIY version of the Promethean drama: qui il riferimento è al filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han e, in ultima istanza, a Kafka).
La priorità della prestazione, a sua volta, è anch’essa imposta all’individuo, il quale si trova a doverla sostenere non soltanto al di fuori di strutture di sostegno comunitarie, ma anzi contro di esse, in una cultura del precariato radicale (culture of sink-or-swim individualism) in cui ogni predicato della stabilità è denunciato a gran voce come retaggio di un passato irrecuperabilmente perduto. Precari diventano anche quei valori attraverso i quali un tempo ci si costruiva un’identificazione in grado di supplire al naufragio della coscienza, primo tra tutti il luogo geografico e antropologico dello stato-nazione, della patria.
Fragilità endemica, dunque, che perversamente diventa terreno fertile per l’insorgere di meccanismi antichissimi di individuazione e designazione del capro espiatorio, cui addebitare la colpa di una condizione di realtà cui non si sa far fronte; meccanismi ormai svincolati dall’ambito rituale cui in origine appartennero (Frazer), e consolidati in un agire storico ben determinato. Il capro espiatorio, la vittima, l’homo sacer (Agamben, da Bauman citato esplicitamente) è però oggi a portata di mano: è l’altro, lo stranger. Già in partenza in una posizione di debolezza, egli viene privato rapidamente di quel residuo di diritti che il riconoscimento di una comune umanità dovrebbe garantire, attraverso un processo che Bauman chiama di adiaforizzazione (dal greco ἀδιαφέρω, rendo indifferente). All’altro si nega così il consenso ad una dignità basilare, escludendolo dall’orizzonte di ciò che chiamiamo umano: esattamente l’opposto di quell’accomunare gli orizzonti di cui parlava Gadamer (Horizontverschmelzung).
Da cui le violenze, le deportazioni, i muri.
C’è via di salvezza? Bauman (e qui a me sembra che più che altrove egli si sveli, nel fondo, mitteleuropeo e polacco, in senso alto) ci induce a rileggere Hannah Arendt, ricordandoci che non c’è paradiso fuori dall’arte del dialogo, ossia da una disponibilità ad impegnarsi nel rapporto con l’incertezza, con il rischio, non determinabile a priori, che l’altro impersona.
A voler privilegiare una lettura classicamente marxista, a Bauman si potrebbe forse obiettare di non aver preso in adeguata considerazione il ruolo delle classi lavoratrici occidentali nel combattere il dilagare del razzismo di stato; il testo però rifiuta di far propri punti di vista che ormai risulterebbero mere semplificazioni ideologiche (la lotta di classe come tensione al controllo degli apparati di potere), e anzi individua in quella parte del proletariato incapace di acquisire una coscienza di classe (il Lumpenproletariat della dottrina tradizionale) l’alleato più fedele delle forze conservatrici: proprio in questo paradosso del resto sta lo strappo drammatico che il rapporto con lo straniero introduce rispetto alla visione sostanzialmente ottimista del marxismo.
Come nella favola delle rane e delle volpi, in cui si narra che queste ultime, spaventate da un branco di cavalli, trovano sollievo nel panico che a sua volta la loro vista provoca tra poche ranocchie, così i sommersi dell’Occidente, esclusi da ogni possibilità di salvezza da un meccanismo produttivo spietato, godono nella scoperta di un ulteriore livello di disperazione. L’altro, lo stranger che arriva dal di là delle sponde e da una vita oltre la nostra comprensione, è effettivamente estraneo perché privo di quei caratteri identificativi minimi che accomunano gli ultimi e i primi della civiltà occidentale. E ben si spiega a questo punto il prender piede, mai come prima, dei nazionalismi, degli sciovinismi, di partiti xenofobi e razzisti, in misura speciale nelle classi a basso reddito.
Bauman critica esplicitamente il Front National di Marine Le Pen e le esternazioni di Donald Trump, ma avrebbe potuto con altrettanta efficacia far menzione di Prawo i Sprawiedliwość, il partito conservatore di maggioranza in Polonia i cui leader hanno costruito la loro fortuna sullo slogan Polska dla Polaków (“La Polonia ai polacchi”, cfr. una recente intervista a Jarosław Kaczyński). Spacciate per programmi politici, queste vulgate non sono che indizi di un meccanismo sempre uguale, in cui l’Occidente tenta di curare la ferita narcisistica conseguente alla perdita definitiva della sua centralità nel mondo (Raphaël Liogier, Le Mythe de l’islamisation. Essai sur une obsession collective, Paris, Éd. du Seuil, 2012) attraverso l’individuazione di un nemico comune nell’altro, in chi viene dal di fuori della comunità ed è, nello stesso tempo, superfluo in quanto potenziale competitore nell’uso di risorse a cui egli non ha titolo e dannoso in quanto erode una presunta identità occidentale, un presunto massimo comun denominatore da cui l’altro è escluso esattamente perché altro. Un altro rappresentato come incalzante, conquistatore; caricato di rappresentazioni simboliche e di una volontà perturbante arbitrariamente sovrapposta alla realtà storica.
Ad un certo Occidente, ormai lontano nel tempo, o almeno a certi suoi episodi, andrebbe dato atto di aver saputo farsi modello di accoglienza non prevaricante, di apertura alla non-linearità, alla pluralità e alla misticanza dei punti di vista. Anche di punti di vista irriducibili l’uno all’altro, di dissoi logoi (ne parla Franco Cassano in Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, 2007, richiamando la drammatica trattativa tra Meli e Ateniesi ricordata da Tucidide): si pensi all’insediamento musulmano di Lucera, voluto da Federico II, pur con le sue luci ed ombre. Comprendere quanto la presenza dell’altro, la biodiversità culturale, possa essere fonte di sviluppo; non perseguire ad ogni costo una riduzione a fattor comune che conferisca ad una soltanto delle parti il diritto di forzare l’altrui omologazione al proprio sistema di cultura. Essere luogo aperto al confronto, alla discussione plurale, alla poliglossia (Bachtin); essere agorà, nel senso classico e civile della parola. In tutto questo l’Occidente, ed in particolare l’Europa, avrebbe modo e diritto di trovare la sua identità; e ben più che nella difesa pretestuosa di una configurazione di valori più o meno arbitrariamente individuata.
Costruire non il muro, ma l’antimuro. Ne parla Régis Debray in Eloge des frontières (Folio, Paris, 2013): opponendo l’identità-relazione all’identità-radice, rigettando come insensata la scelta tra l’evaporato e l’incistato (entre l’évaporé et l’enkysté), aprendosi a una condivisione universale (un partage du monde). Purtroppo, spiega Bauman citando ancora Beck in una intervista concessa al New York Times , se è vero che il volgere stesso della civiltà ha posto le premesse per una interdipendenza globale (a cosmopolitan condition of universal, humanity-wide interdependence), è altrettanto vero che soffriamo acerbamente la mancanza di una capacità di intellectus, di comprensione e di accoglienza (accompanying cosmopolitan awareness) che siano all’altezza della situazione.
Infine, una riflessione sulla lingua. Dalla metà degli anni settanta Bauman smette di scrivere in polacco, ed abbraccia in modo risolutivo la cultura e la lingua del mondo anglosassone; il quale ne ricambia la scelta di campo con una stima profonda e non meno definitiva. Ed ecco allora che, nella lunga storia di esuli illustri che la Polonia ha prodotto negli ultimi secoli, Bauman si schiera tra quelli che depongono il polacco per aprirsi a prospettive più ampie: da Joseph Conrad a Maria Skłodowska-Curie a Roman Polański; e agli antipodi di chi invece conserva la fedeltà alla lingua materna, pur senza necessariamente precludersi i vantaggi dell’esilio: è il caso, ad esempio, di Leszek Kołakowski.
Bauman si costruisce un inglese molto analitico, non estraneo alla prosa di estrazione accademica nel Regno Unito, ma non paludato né pedante; spregiudicato nel concentrare in serrate clausole aggettivali determinazioni complesse (nella stessa pagina troviamo “catch-as-catch-can, round-the-clock banditry” e “GNP-rise-greedy governments”), generoso nel ricorso all’ipotassi per articolare compiutamente il pensiero.
Mark Davis, che in un articolo apparso su Times Higher Education dichiara Bauman “the greatest sociologist writing in English today”, non fa che esprimere un giudizio di valore unanimemente condiviso. Ed è innegabile che Bauman abbia saputo trovare un equilibrio maturo ed estremamente fertile nell’intersezione tra un radicamento persistente nella cultura di origine e un’adesione sincera e trasformativa alla cultura di elezione, di cui egli fu molto più che un ospite gradito. Inverando il ritratto che Cioran fa dell’intellettuale in esilio, Bauman conquista il mondo anglosassone, ne incarna lo sviluppo del pensiero ai livelli più alti, accumula ed esercita una capacità di influire su quel mondo. In questo percorso, naturalmente, la scelta di abbandonare il polacco è, io credo, essenziale: e non tanto perché le sue opere non sarebbero state ugualmente tradotte e lette anche in inglese se egli avesse continuato a scrivere nella sua lingua materna, ma nella misura in cui l’uso di una lingua contribuisce a costruire il pensiero che in quella lingua si esprime e si svolge, struttura l’esercizio stesso della riflessione critica, e infine ci parla del modo personalissimo in cui chi scrive affronta il nodo cruciale del denudamento della propria identità (Derrida).
E invero, più che chiederci fino a che punto la produzione matura di Bauman possa ascriversi alla storia del pensiero polacco (ammesso che abbia ancora senso presumere, oggi, l’esistenza di scuole nazionali), sarebbe interessante indagare la fortuna che gli scritti del filosofo hanno in Polonia, a partire innanzitutto dal dato linguistico. Ad esempio, se Marco Cupellaro rende lo strangers del titolo come stranieri, sacrificando così inevitabilmente l’altro significato che il termine inglese possiede (estranei) e sulla cui ambiguità tutto il libro è imperniato, la versione polacca (Obcy u naszych drzwi, PWN, Warszawa, 2016) arricchisce invece ulteriormente la pregnanza semantica dell’originale: obcy, che, si noti, è al singolare, è non soltanto il cittadino di un paese straniero, ma più in generale chi non appartiene al nostro ambiente, geografico culturale sociale (osoba nienależąca do jakiegoś środowiska, spiega il dizionario in rete SJP, http://sjp.pl/obcy). Connesso ad una radice *obьt’ (Wiesław Boryś, Słownik etymologiczny języka polskiego, Wydawnictwo Literacki, Kraków, 2006), che esprime ancestralmente l’idea di comune (cfr. il ceco společný, il polacco obecny, o il sostantivo croato općina), obcy viene ad assumere un significato di distacco, di enucleazione dalla comunità e dal corpo di diritti che ammettono che ammettono al godimento di ciò che è comune; fino ad indicare il radicalmente altro, lo sconosciuto in quanto non esibente quelle caratteristiche comuni che, esse sole, permettono il riconoscimento.
Oltre l’étranger, obcy è l’alieno.