Profilo di Stefan Banach, studioso cracoviano e animatore della Scuola Matematica di Leopoli.
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di Roberto Reale
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È sera, e stiamo passeggiando lungo gli splendidi viali dei Planty, l’anello verde che circonda la vecchia Cracovia ricalcando il percorso delle mura medievali. A un tratto, ci imbattiamo in una piccola brigata di giovani baccellieri e cogliamo al volo brandelli di un discorso, voci tese ed eccitate. Aguzziamo l’orecchio, ché ci pare di udire l’espressione całka Lebesgue’a.
Oggi forse non ci stupiremmo più di tanto—o forse, chissà, ci lasceremmo ancora colpire dall’entusiasmo di giovani che discutono di matematica. Ma se siamo nel 1916, e la geniale invenzione di Lebesgue, vera e propria disruptive technology di inizio secolo, ha appena dodici anni, l’espressione całka Lebesgue’a deve suonare ancora molto, molto esotica tra le severe facciate dei palazzi cracoviani. Le probabilità che sappiamo di cosa stiano parlando quei giovani sono praticamente nulle.
Però qui nel 1916 siamo ancora nel cuore della Galizia, dentro quel grandioso esperimento di Europa Unita ante litteram che fu l’impero asburgico, in un luogo che fu il prodotto di una mitopoietica politica e antropica fiorita miracolosamente sullo spartiacque tra i due secoli, aperto agli apporti di popoli e culture multiformi. Tra Vienna, Leopoli e Cracovia una continua corrente d’idee fluisce vigorosa. Tutto può accadere.
Tant’è vero che noi che passeggiamo lungo i Planty non siamo gente qualsiasi, ma Władysław Hugo Dionizy Steinhaus, già allievo di David Hilbert a Gottinga, fondatore della scuola di matematica di Leopoli ed ivi professore all’università. E allora come non fermarsi di botto, come non abbracciare quei giovani, come non gioire di fronte al talento finora misconosciuto del più brillante tra loro, Stefan Banach, un autodidatta cui non mancava che l’incontro con un mentore capace di intuirne e svilupparne il genio?
Ma facciamo un passo indietro.
Sappiamo che un modello piuttosto efficace della geometria euclidea, le cui classiche radici si possono ritrovare già in Cartesio e in Fermat, è lo spazio vettoriale: un ambiente i cui enti, chiamati vettori (o genericamente punti), possono essere sommati tra loro e moltiplicati per un multiplo (o scalare). Di solito, si introduce anche un modo per misurare angoli e distanze, e in generale per dare un senso alla nozione di limite di una successione: dove per successione si intende semplicemente un conteggio (in altri termini, una indicizzazione) di un insieme di punti dello spazio e per limite un punto dato al quale una successione converge.
Diventa allora essenziale lo studio di quelle trasformazioni dello spazio che non distruggono la struttura vettoriale: in altri termini, di quelle applicazioni di uno spazio vettoriale in un altro che conservano la somma tra i vettori e la moltiplicazione per uno scalare. Tali applicazioni si dicono lineari, e continue se conservano pure la struttura relativa ai limiti: la quale per inciso si chiamerà, a seconda del modo in cui viene definita, prodotto scalare o norma o metrica o topologia. La sorpresa sta nel fatto che l’insieme delle applicazioni lineari tra due spazi vettoriali dati è a sua volta uno spazio vettoriale, a patto di definire in modo opportuno la somma e la moltiplicazione per uno scalare. Di più, la struttura dei due spazi vettoriali tra i quali le applicazioni sono definite e la struttura dello spazio delle applicazioni sono legate a filo doppio, specie nel caso particolare in cui lo spazio di “destinazione” è la retta dei numeri reali: si ottiene allora una forma molto forte di dualità.
Ma la matematica è l’arte di dare lo stesso nome a cose differenti: e allora, anziché distinguere tra i due “livelli” di spazio vettoriale, quello “primitivo” e quello delle applicazioni lineari, risulta assai più fertile unificare la trattazione di entrambi in un’unica teoria. Fin qui tutto bene: siamo ai lavori di Cayley e Grassmann, in pieno Ottocento, e gli spazi considerati hanno ancora una decente somiglianza con lo spazio fisico o intuitivo della geometria euclidea, al quale Kant aveva nel frattempo concesso lo statuto di a priori.
È a questo punto che l’analisi matematica si intreccia ai destini della geometria: quell’analisi che, scaturita dalle intuizioni geniali di Newton e Leibniz, aveva peccato nei primi due secoli di vita di una grande disinvoltura nel calcolo, trattando i simboli come entità puramente formali e senza preoccuparsi più di tanto della giustificazione rigorosa dei suoi risultati, tanto da suscitare le ire dei detrattori come Berkeley e Lagrange e l’entusiasmo degli Eulero e dei Fourier. Quell’analisi, del resto, che aveva espresso la propria definizione di continuità (diversa, in apparenza, da quella geometrica) per le sue funzioni, e che ora si ritrova nella necessità di dare un quadro unitario a un armamentario di nuovi strumenti: integrali, tecniche di approssimazione, il sorgere della teoria delle equazioni differenziali.
In particolare, Henri-Léon Lebesgue pubblica nel 1904 le sue Leçons sur l’intégration et la recherche des fonctions primitives, vero e proprio coming of age della teoria dell’integrazione e momento fondativo della teoria della misura. La teoria di Lebesgue permette di costruire rigorosamente una famiglia di spazi di funzioni la cui lunghezza (propriamente, norma), definita in termini di integrale, è finita: siffatti spazi, detti Lp, esibiscono una somiglianza impressionante con gli spazi vettoriali di dimensione finita di cui abbiamo detto sopra. Le funzioni vi si possono sommare e moltiplicare per uno scalare, e in più la norma può benissimo servire ad introdurre la convergenza delle successioni. Certo, stavolta i punti o vettori dello spazio non hanno più nulla in comune con i punti dello spazio euclideo: un punto in uno spazio Lp è una funzione. Ma, dopo tutto, per la matematica che approda al Novecento la questione della natura in sé dei suoi enti non ha più alcun senso. Onde può rivelarsi mossa vincente unificare in uno stesso framework teorico gli spazi vettoriali della geometria euclidea e gli spazi Lp, stavolta infinito-dimensionali.
Anzi, giacché ci siamo perché non generalizzare ulteriormente il concetto di spazio vettoriale normato, enunciandone in termini assiomatici la definizione e astraendo del tutto dal modo in cui ciascuno spazio (ciascun modello della definizione) viene di volta in volta costruito? Certo, ci si potrà scontrare con qualche difficoltà: per esempio, potremmo accorgerci che tutti gli spazi vettoriali finora considerati erano completi, ossia che tutte le successioni di Cauchy di loro punti (detta di Cauchy una successione i cui punti si avvicinano arbitrariamente) ammettono anche limite nel senso specificato sopra; laddove ciò non è più valido nel caso generale. Per ritrovare molti dei risultati più significativi potremo restringerci in seguito a considerare soltanto gli spazi normati completi, che Banach chiamerà di tipo B e che oggi chiamiamo, acconciamente, spazi di Banach.
Non dimentichiamo che nei primi decenni del Novecento in Galizia e poi in Polonia è tutto un fiorire di scuole che nella ricerca filosofica e matematica, e in particolare nell’esplorazione dei vastissimi nuovi territori offerti alla speculazione di quella stagione miracolosa, ritrovano un’espressione estremamente efficace di rivendicazione identitaria e di renesans nazionale. La scuola di logica di Leopoli-Varsavia, il circolo alla Kawiarnia Szkocka di Leopoli, la scuola di Varsavia approntano un arsenale di strumenti formidabili: per quel che ci interessa qui, i progressi in topologia e nei fondamenti della matematica ottenuti da Kazimierz Kuratowski e dal suo cenacolo forniscono giustappunto il supporto di cui Banach ha bisogno per procedere con la sua generalizzazione della teoria degli spazi (vettoriali) normati.
Momento cruciale nello sviluppo di tale teoria è la soluzione del problema sull’estensione di funzioni lineari definite su sottospazi, ossia su insiemi di punti dello spazio che hanno a loro volta una struttura vettoriale mutuata da quella dello spazio “contenitore”; problema che peraltro corrisponde, in questo approccio più generale, alla risoluzione di sistemi di equazioni lineari. Un caso particolare, quello delle funzioni continue su un intervallo di numeri reali, era stato già trattato una quindicina d’anni prima da Eduard Helly, viennese; ma la dimostrazione della forma generale di quello che sarà il teorema di Hahn-Banach richiede (quasi) tutta la forza dell’assioma della scelta e fa uso del principio di induzione transfinita studiato da Kuratowski.
Il teorema di Hahn-Banach è oggi uno strumento di importanza vitale non soltanto nel suo ambito di elezione, la teoria degli spazi normati, ma in ogni dominio dell’analisi, dalla teoria della dualità all’integrazione complessa, dalla teoria della misura all’ottimizzazione, per culminare in applicazioni alla fisica, all’ingegneria, all’economia (Lawrence Narici ed Edward Beckenstein, The Hahn–Banach Theorem: The Life and Times, in Topology and its Applications, Volume 77 (1997), 193–211)). L’attribuzione a Banach (Sur les fonctionelles linéaires, in Studia Mathematica, 1, 211-216 e 223-229) e a Hans Hahn, viennese anch’egli (Über linearer Gleichungssysteme in linearer Räumen, in Journal für die reine und angewandte Mathematik, 157, 214-229), ne attesta la duplice paternità.
Ma l’importanza del teorema di Hahn-Banach va ben oltre le sue applicazioni presenti e future. Senza di esso, l’analisi funzionale resterebbe probabilmente vincolata ad un approccio costruttivistico che ne decreterebbe la marginalizzazione. È precisamente grazie ad Hahn-Banach, invece, che la disciplina ha saputo guadagnarsi quel ruolo di fondazione dell’analisi che oggi sostanzialmente le è riconosciuto. Il teorema, del resto, si è rivelato a sua volta una buona forma “analitica” dell’assioma della scelta, benché strettamente più debole di quest’ultimo.
Il lavoro di ricerca di Banach culminerà nella sua Teoria degli operatori lineari. Uscita dapprima in polacco per le edizioni della fondazione varsaviana di promozione scientifica Józef Mianowski (Kasa im. Józefa Mianowskiego – Fundacja Popierania Nauki) col titolo Teoria operacji. Tom I: Operacje liniowe (http://kielich.amu.edu.pl/Stefan_Banach/teoria-operacji-pol.html) e l’anno dopo, nel ‘32, in francese, la Théorie des opérations linéaires (http://kielich.amu.edu.pl/Stefan_Banach/teoria-operacji-fr.html) è il primo trattato completo sulla teoria astratta degli spazi vettoriali normati. Momento fondativo dell’analisi funzionale, testo logicamente e didatticamente self-contained, l’eleganza di impostazione e di stile ne fanno oggi oggetto di interesse anche per chi, estraneo alla ricerca matematica, sa ritrovarci un’architettura intellettuale di rara bellezza.
Dopo Banach, lo sviluppo dell’analisi funzionale subirà una moltitudine di contributi eterogenei che la condurranno ad intrecciarsi variamente con il progresso di altre discipline e con le vicende della storia europea. Banach stesso ebbe una vita perfino un po’ picaresca, essendosi una volta, per sopravvivere, impiegato come karmiciel wszy, donatore del sangue per i pidocchi impiegati per le ricerche sul tifo all’istituto di virologia di Leopoli! Ma le fondamenta che la sua opera e la sua scuola seppero gettare, tra Cracovia, Leopoli e Varsavia, restano tuttora intatte; come resta miracolosamente inviolata l’unità di fondo della disciplina. Basterà seguirne per grandi linee lo sviluppo per rendersene conto.
È già nel ‘34 che il giovane e agguerrito gruppo Bourbaki prende a riunirsi in un caffè parigino, sul boulevard Saint-Michel, con il preciso intento di rifondare la matematica ex nihilo. Un programma così ambizioso non può naturalmente lasciare da parte l’analisi funzionale; si generalizza l’approccio di Banach attraverso il concetto di duale topologico (il sottospazio di uno spazio vettoriale formato dai funzionali lineari e continui) per giungere allo studio degli spazi localmente convessi, la cui topologia è definibile attraverso una famiglia di seminorme (dove la seminorma è a sua volta generalizzazione della norma).
Ancora nel corso degli anni ‘30, l’americano Norbert Wiener si prodigherà per arricchire algebricamente la struttura di uno spazio di Banach, facendone scaturire le cosiddette algebre di Banach. La conseguenza è l’approfondimento del legame, finora implicito, con la teoria generale delle strutture a cavallo tra algebra e topologia, vale a dire i gruppi e le algebre di Lie, sicché una pletora di strumenti classicamente sviluppati nell’ambito dello studio di quelle strutture (teoria spettrale, dualità topologica) diventano improvvisamente disponibili anche all’analisi funzionale. Sono i primi successi della fiorentissima teoria delle algebre di operatori, presto accolta e condotta a rara perfezione dalla nascente scuola russa (da Izrail’ Moiseevič Gel’fand e Georgij Evgen’evič Šilov, tra gli altri). La classificazione completa delle C*-algebre, un caso particolare ma di estremo interesse, culminerà nei lavori dei francesi Jacques Dixmier e Alain Connes, nel dopoguerra. Seguirà, in pieni anni ‘70, lo studio dell’omologia e della coomologia delle algebre di Banach, in un filone di ricerca che si ispirerà alla meccanica quantistica.
Decenni dopo la pubblicazione della Théorie des opérations linéaires, i lavori e le idee di Banach continuano a costituire fonte di ispirazione privilegiata per i matematici: per esempio, lo svedese Per Enflo parte dal concetto di spazio di Banach per affrontare fondamentali problemi di carattere geometrico, alcuni dei quali rimasti aperti per anni (A counterexample to the approximation problem in Banach spaces, in Acta Mathematica, vol. 130, no. 1, 1973; On the invariant subspace problem in Banach spaces, in Séminaire Maurey-Schwartz (1975-1976)). Il che testimonia, certo, a favore dell’unità di fondo della matematica; ma ancor più della vitalità delle idee di Stefan Banach, concepite nell’irripetibile terreno di coltura della Galizia di inizio secolo, e rivelate da un incontro fortunato lungo i viali di Cracovia, una sera.