Alla scoperta della attività del gruppo Oyneg Shabbos e dell’Archivio Ringelblum, tutori attivi della memoria dell’Olocausto.
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di Lorenzo Berardi
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La Giornata della Memoria è un appuntamento al quale noi di PoloniCult teniamo molto. Quest’anno vogliamo farvi conoscere o approfondire uno degli esempi più coraggiosi e lungimiranti di resistenza effettiva agli orrori della Shoah: quello del gruppo Oyneg Shabbos. Detto anche Oneg Shabbat, il suo nome significa “la gioia dello Shabbat”. Meno noto al pubblico italiano della Rivolta del Ghetto di Varsavia tramandata da Marek Edelman, quanto fatto dall’Oyneg Shabbos è stato altrettanto nobile e coraggioso. Il gruppo era nato in segretezza sin dai primi giorni in cui la popolazione ebrea e di origine ebraica della capitale venne imprigionata in un’area recintata di pochi chilometri quadrati.
L’obiettivo iniziale del gruppo era raccontare come gli ebrei vivevano nel Ghetto varsaviano, raccogliendo loro testimonianze dirette e documenti ufficiali con l’intento di preservarle e tramandarle ai posteri. Non solo gli occupanti nazisti, ma persino gli stessi abitanti del Ghetto ignoravano questa incessante attività di documentazione che si svolgeva di nascosto. A dare una mano erano volontari della Żydowska Samopomoc Społeczna (Żss), un’organizzazione creata per aiutare a sfamare gli abitanti del Ghetto e tollerata dai tedeschi. Il suo ufficio si trovava all’interno della Biblioteca Giudaica, di fianco alla Grande Sinagoga della capitale.

La Grande Sinagoga di Varsavia prima della sua demolizione. Illustrazione di P. Boczkowski
L’eredità di Emanuel Ringelblum
Fra i fondatori dello Oyneg Shabbos vi era Emanuel Ringelblum, un quarantenne storico ebreo residente a Varsavia, ma originario della Galizia. Intendeva raccogliere e conservare una miscellanea di testimonianze scritte e iconografiche della vita nel Ghetto. Fra di esse vi erano documenti ufficiali, fotografie, disegni, pagine di diario, lettere, cartoline, poster, biglietti per spettacoli e tessere annonarie. Il tutto catalogato scrupolosamente e con rigore scientifico. Fra i partecipanti al gruppo vi erano inoltre attivisti dei movimenti politici sotterranei che animavano la Varsavia occupata, per cui fra i materiali raccolti non mancavano opuscoli e pubblicazioni clandestine.
L’archivio vero e proprio venne creato nel novembre del 1940. A partire dall’inizio del ’42, tuttavia, il Ghetto cominciò ad essere svuotato dai nazisti e iniziarono a diffondersi racconti raccapriccianti sulla fine di chi veniva costretto a lasciarlo. L’Oyneg Shabbos allora decise di concentrarsi sulla raccolta e la trascrizione di testimonianze orali e di qualsiasi fonte scritta che potesse aiutare a ricostruire le sorti degli ebrei deportati da Varsavia verso ignote destinazioni. Tutto quanto venne poi sotterrato in gran segreto nei giorni concitati che precedettero la liquidazione e l’Insurrezione del Ghetto, dividendo l’archivio in tre parti. Emanuel Ringelblum non riusci mai a recuperare l’archivio che aveva contribuito a creare. Fuggito dalle rovine del Ghetto, venne catturato e ucciso – assieme ai polacchi che lo avevano salvato – nel marzo del ‘44.
Nel settembre del ‘46 dieci contenitori metallici nei quali era stata stipata la prima parte dell’archivio vennero dissotterrati al numero 68 di via Nowolipki. Quattro anni dopo, invece, una coppia di bidoni del latte sigillati venne scoperta per caso scavando negli scantinati dello stesso indirizzo: contenevano la seconda parte dell’archivio. Manca ancora la terza parte dell’archivio che – interrata il 19 aprile del ’43, la notte prima dell’inizio della Rivolta del Ghetto – dovrebbe trovarsi nell’area oggi occupata dall’ambasciata cinese a Varsavia. Nel 1999, i 1680 documenti originali rinvenuti, pari a circa 25mila pagine, di quello che nel frattempo è divenuto noto come Archivio Ringelblum sono stati inclusi dall’Unesco nel suo Registro della Memoria del Mondo.
Otto anni più tardi, lo storico statunitense Samuel D. Kassow ha immortalato la vicenda dell’Oyneg Shabbos in Who Will Write Our History? (Chi scriverà la nostra storia?). Il libro è la principale fonte d’ispirazione per un documentario dal medesimo titolo uscito quest’anno e di cui si è di recente occupato il New York Times. Lo ha diretto la regista americana Roberta Grossman, ma il cast è prevalentemente polacco. Piotr Głowacki – già visto in Bogowie e Disco Polo – interpreta Emanuel Ringelblum. Sua moglie Judyta è Karolina Gruszka, attrice già vista nei panni di Marie Curie, nell’omonimo film. La voce narrante, invece, è quella di Adrien Brody, l’attore statunitense celebre per la sua interpretazione di Władysław Szpilman ne Il pianista di Roman Polański.

I bidoni del latte dell’archivio Ringelblum
Un piccolo grande museo da non perdere
Le 25mila pagine di documenti originali dell’Archivio Ringelblum sinora tornate alla luce sono state minuziosamente restaurate e catalogate grazie a un lavoro certosino durato decine di anni. Oggi ricercatori di tutto il mondo possono consultarle nella sede dell’Istituto Storico Ebraico Emanuel Ringelblum. Si trova a Varsavia in una stradina secondaria, fra lo snodo di Ratusz Arsenał e Plac Bankowy. Ha sede all’ombra di un anonimo grattacielo, nell’edificio che un tempo ospitava la Biblioteca Giudaica e l’Istituto di Studi Giudaici. Proprio accanto sorgeva la Grande Sinagoga distrutta dagli occupanti nazisti il 16 maggio del 1943. Creato nel 1947 già nel medesimo edificio, attivo fra mille difficoltà nella lunga parentesi della Polonia socialista e poi trasformato in ente scientifico nel 1994, a partire dal gennaio 2009 l’Istituto è gestito dal Ministero della Cultura di Varsavia.
Il privilegio di conoscere la storia dell’Archivio Emanuel Ringelblum e del gruppo Oyneg Shabbes non è riservato soltanto a storici e accademici. L’Istituto ospita infatti una meravigliosa esposizione permanente intitolata ‘Quello che non abbiamo potuto gridare al mondo’. Recentemente rinnovata, ricostruisce l’intera vicenda al grande pubblico con rigore storico, delicatezza e coinvolgenti risorse interattive. Il museo si articola su una dozzina di sale disposte su vari livelli e comprende anche la ricostruzione degli interni di una piccola sinagoga oltre a un piano intero riservato a mostre temporanee.
Relativamente poco conosciuta e decisamente meno visitata rispetto al celebre Museo degli ebrei polacchi, il Polin – distante circa un chilometro in linea d’aria e inaugurato nel 2013 – questa esposizione non ha nulla da invidiargli. Il nostro consiglio è quello di non perderla, se vi trovate a Varsavia. In teoria bastano un paio d’ore per visitarla, ma vale sicuramente la pena soffermarsi un po’ più a lungo per ascoltare dall’inizio alla fine i materiali audiovisivi interattivi disponibili. Ricostruiscono la storia e i protagonisti dell’Oneg Shabbat in maniera mirabile raccontando inoltre come l’Archivio Ringelblum sia stato rinvenuto e quanto sia stato difficile restaurarne i fragili contenuti, parzialmente danneggiati dalle infiltrazioni.

Il Jewish Historical Institute Ringelblum oggi
Una chiacchierata con la curatrice
«Oggi questa istituzione ha molte anime: è al tempo stesso un museo, un archivio, una biblioteca e una libreria», ci ha spiegato Anna Duńczyk-Szulc, co-curatrice dell’esposizione nonché vicedirettrice e responsabile delle iniziative didattiche dell’Istituto quando l’abbiamo incontrata, l’estate scorsa.
Il vostro sembra uno dei segreti meglio custoditi di Varsavia. Non è così facile conoscervi o scovarvi per un turista di passaggio, a differenza del Polin.
«Il numero di persone che accedono a questo Istituto, inclusi i visitatori all’esibizione permanente, alla biblioteca, alla sala lettura e all’Archivio Ringelblum è quintuplicato fra il 2000 e il 2016. Solo nel 2017 abbiamo avuto meno presenze, perché il nostro edificio è stato chiuso per ristrutturazione per alcuni mesi. Inoltre, non tutti sanno che l’idea di creare il Polin di Varsavia è nata proprio all’interno di questo Istituto, diversi anni fa. Poi l’abbiamo sviluppata con l’Associazione dell’Istituto Storico Ebraico che nel 2005 è riuscita a creare un’istituzione dedicata per quel nuovo complesso museale».
Che ruolo vi proponete per avvicinare i vostri visitatori e soprattutto le nuove generazioni al tema della Memoria?
«Cerchiamo di rendere la nostra offerta didattica coinvolgente anche per gli alunni più giovani, oltre a prevedere visite guidate, lezioni e seminari in inglese per studenti internazionali. Organizziamo tour guidati a piedi e workshop collegati al tema principale della nostra esibizione permanente: l’Archivio Ringelblum. Inoltre, abbiamo creato un laboratorio didattico per i bambini incentrato sulla religione e sulla cultura ebraica».
Quanto è importante in questa narrazione fare riferimento alle inestimabili fonti primarie custodite dal vostro Istituto?
«Per noi si tratta dell’aspetto più rilevante. Diamo grande importanza a fotografie, documenti e note biografiche di persone coinvolte nel gruppo Oyneg Shabbat. L’esposizione permanente ospita artefatti originali di quel periodo in modo che i visitatori possano capire come erano utilizzati. In fondo, i nostri tour a piedi sono proprio viaggi guidati attorno alle fonti primarie nei quali ci si ferma davanti a edifici e luoghi significativi della Varsavia ebraica. Il nostro team didattico è eccellente, ma siamo in pochi e a volte non riusciamo ad accontentare tutte le richieste che riceviamo. Per esempio, durante l’ultima edizione del Festival Singer, abbiamo avuto un numero di partecipanti triplo ai nostri tour a piedi rispetto al solito».
Con quali realtà espositive e culturali polacche siete oggi in contatto?
«Di recente stiamo lavorando molto con due spazi museali di Łódź: il Museo dell’arte e il Museo civico. Inoltre, collaboriamo da diversi anni con il Museo degli Ebrei Galiziani di Cracovia nella creazione di mostre temporanee che ospitiamo là o in un’area espositiva dedicata, all’ultimo piano del nostro Istituto. Infine, cooperiamo con la Filmoteka Narodowa, l’Archivio nazionale cinematografico polacco, che nel 2018 ha curato una rassegna di film in yiddish al cinema varsaviano Ilusjon con dibattiti post-proiezioni curati da nostri ricercatori. Il progetto è proseguito per un anno intero differenziandosi per questo dai festival del cinema ebraico organizzati a Varsavia».
Quali sono, invece, i vostri rapporti con i principali soggetti internazionali che si occupano di Memoria, trattando i temi dell’ebraismo e della Shoah?
«Siamo membri dell’Associazione Europea dei Musei Ebraici e spesso prestiamo i nostri artefatti ad altre gallerie europee. Nel 2018 è toccato soprattutto a musei polacchi visto che si è celebrato il centenario dell’indipendenza nazionale. Collaboriamo da tempo con il Museo statunitense dell’Olocausto di Washington e ora l’originale di uno degli iconici bidoni del latte in cui venne nascosto parte dell’Archivio Ringelblum è esposto lì. Cooperiamo poi con lo Yad Vashem di Gerusalemme su programmi didattici per insegnanti sia qui che in Israele. Abbiamo anche una crescente serie di collaborazioni con università e biblioteche in giro per il mondo oltre che con il Memoriale della Shoah di Parigi e il progetto francese, ma di respiro europeo, Convoi 77. Abbiamo una nostra casa editrice interna, ma a volte collaboriamo con altri editori e vorrei aumentare il numero di questi partner culturali in futuro».
A proposito di uscite editoriali, oggi le testimonianze presenti nell’Archivio Ringelblum sono ancora relativamente poco conosciute o di difficile accesso per chi non viene a trovarvi a Varsavia. Cosa state facendo per tradurle e diffonderle nel mondo?
«Il nostro programma Oyneg Shabbat è pensato proprio per diffondere la conoscenza e promuovere la visibilità internazionale dell’Archivio Ringelblum. Una sua parte fondamentale riguarda la traduzione in inglese dei documenti presenti nell’archivio stesso. Usufruiamo di un fondo per coprire i costi e stiamo cercando case editrici straniere che siano interessate a pubblicare queste nuove traduzioni. Per il mercato spagnolo, abbiamo già trovato qualcuno. Per quello italiano e francese, invece, lo stiamo ancora cercando».