Ancora un giorno – Another day of life. Kapuściński al cinema

Another day of life PoloniCult

Ancora un giorno porta al cinema uno dei libri più noti di Kapuściński e l’essenza stessa del grande reporter.

di Salvatore Greco

Angola. Oggi pochi saprebbero trovarlo su una mappa senza esitare, eppure eccolo lì, sulla costa atlantica dell’Africa meridionale, uno dei Paesi con la storia più complessa del tramonto della stagione del colonialismo. A metà degli anni Settanta, quando più o meno tutti i coloni portoghesi avevano già lasciato il Paese, capire quale sarebbero state le sue sorti non è stato facile. Per motivi interni, legati a partiti rivali, ed esterni, legati all’ennesimo capitolo di un’estenuante partita a scacchi tra Comintern e forze atlantiche lontano dai propri confini. Come il Vietnam, Cuba, l’Afghanistan, anche l’Angola ha visto gli occhi del mondo su di sé per ragioni distanti e ha visto la propria terra solcata da inviati da tutto il mondo. Uno di loro lo conosciamo bene, era Ryszard Kapuściński. Kapuściński all’Angola ha dedicato uno dei suoi libri più belli e intensi, uno di quelli dove l’urgenza del raccontare e l’esigenza di essere partecipe della storia si confondono dando vita a un racconto di grande passione e impeccabile giornalismo. Il titolo della versione italiana, Ancora un giorno, uscito per Feltrinelli e recentemente ripubblicato, è anche il titolo di un film a tecnica mista girato da Raùl de la Fuente e Damian Nenow, film in arrivo in Italia ad aprile grazie alla distribuzione di I wonder pictures.

Ancora un giorno è un film difficile da incasellare nelle confortevoli pareti di una categoria. È un film su Kapuściński, è un film con Kapuściński, è un documentario sulla guerra civile in Angola, è un film animato. È tutto questo, e in una certa misura nulla di ciò. Al cuore della pellicola, le vicende di Ryszard Kapuściński, Ricardo come lo chiamano i suoi compagni di avventura, giovane reporter magrolino e mal rasato sempre in giro con un taccuino nel taschino della camicia e pronto a raccontare tutto quello che può – e deve ­– di quello che sta accadendo in quel pezzo di mondo. Sono anni in cui la guerra fredda si combatte anche con la narrazione degli eventi e Kapuściński è lì come reporter, ma anche come rappresentante della parte del mondo che fa il tifo per il socialismo reale ovunque si possa arrivare a manifestare.

Le vicende della guerra, nel libro come nel film, non sono sempre facilissime da seguire, tra le sigle poco intellegibili delle fazioni in lotta e un contesto geopolitico che annaspa nell’immaginazione degli spettatori meno vicini alla storia africana. Questo però è lo sfondo, il pretesto da cui Kapuściński racconta se stesso, i suoi dubbi e il suo modo di intendere la professione che ha scelto come vocazione. È lui che seguiamo, ben più che gli eventi della guerra, ci stendiamo con lui sul letto di un albergo semivuoto di Luanda, con lui cerchiamo di entrare nelle stanze dei bottoni e con lui corriamo all’impazzata su una jeep nel deserto rischiando i proiettili a un posto di blocco. Sempre con lui, quasi nella sua testa, seguiamo il fascino di una condottiera coraggiosa o finiamo per interrogarci sul senso più grande e più alto dell’essere un reporter, in particolare un reporter di guerra.

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Nel 2018 ha fatto enorme scalpore, per non dire scandalo, il fatto che la foto Venezuela Crisis del fotografo Ronaldo Schemidt avesse vinto il Word Press Photo di quell’anno. La foto è famosissima, ma vale la pena provare a descriverla: durante un corteo di protesta contro Maduro che aveva portato a scontri e disordini compreso il rogo di alcuni negozi di Caracas, un ragazzo con la maschera antigas addosso corre disperato e avvolto dalle fiamme su tutta la schiena. La potenza dell’immagine è strabiliante e racconta come poche altre cose al mondo lo stato di uno scontro, quello per il potere in Venezuela, portato al parossismo. Sono stati tuttavia in molti a contestare l’assegnazione del premio proprio a quest’opera. Non tanto per la qualità estetica, difficilmente contestabile, quanto per come ha mosso il tema etico elementare: perché il fotografo ha scelto di scattare quella foto anziché provare a salvare il ragazzo? Perché ha scelto di raccontare e non di agire?

Torniamo a Ancora un giorno, al nostro Kapuściński animato, disegnato con un’essenzialità che non si priva di espressionismo quando serve, e raccontato dalla voce viva e vera dei protagonisti ancora vivi di quella storia, cammei di documentario nel nostro film. Quel Kapuściński lì mentre vive gli eventi, vede morire compagni di avventura e prova sulla sua pelle il rischio che quel Paese corre, deve decidere se raccontare o agire. Lo attanagliano i dilemmi etici, i flashback di momenti di insegnamento, in cui lo paralizzano le domande dei suoi studenti sull’etica del reporter, lo blocca il peso di una scelta difficilissima. La scelta o meno di divulgare una notizia avrà un peso non indifferente sulle sorti del conflitto. Servire il proprio ruolo di reporter o partecipare alla lotta? Raccontare o agire. Kapuściński decide di non decidere, ma non nel senso di ritirarsi nell’ignavia quanto in quello di prendere assieme le due parti della sua missione e compierle. La chiave è in un dialogo verso la fine del film, prima di salire sull’aereo che lo riporterà a Varsavia.

“Ci sono questi studenti… che mi fanno domande sul giornalismo. Quando arriviamo noi cambiamo le cose”.

“Lo facciamo, cambiamo le cose! Tu l’hai fatto, Ricardo, tu ci hai aiutato. Hai aiutato l’Angola”.

“Sì, però…”

“Lo so, amico, la confuçao…”.

È in quella confuçao, resa per ironia nella lingua del colonizzatore, che poi il nostro Kapuściński ritrova l’essenza della sua vocazione, quel tarlo impossibile da zittire che lo porta ogni volta a ripartire, a rischiare, per raccontare la Storia e agirci dentro, cose che per lui sono inevitabilmente e meravigliosamente legate.

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