Alla scoperta dei familoki.

Familoki

Viaggio nella Slesia profonda e ferita, alla scoperta dei familoki: le case in mattoni rossi dei minatori.

di Luca Palmarini

Spostandosi sull’autostrada A4 e lasciandosi alle spalle la splendida Cracovia, dopo un’ottantina di chilometri si arriva a Katowice, capoluogo del Voivodato di Slesia, la storica regione dell’Alta Slesia, una terra polacca, ma con forti influenze slesiane, tedesche e ceche. Il paesaggio muta sensibilmente: a destra e a sinistra appaiono complessi industriali, oggi in maggior parte dismessi, enormi pozzi minerari, montagne di carbone o di scarti della sua estrazione, in polacco chiamate hałdy, mentre da queste parti la variante linguitica è houdy. E ancora gli immancabili palazzoni del regime comunista, circondati da zone verdi. Ciò che caratterizza il bacino industriale slesiano, comunemente chiamato Konglomerat, è appunto la specificità del suo paesaggio; una “Ruhr polacca”, dall’aspetto certo non invogliante e in certi casi persino decadente, ma che dal punto di vista dell’archeologia industriale potrebbe comunque risultare degna di interesse.

Questa forte industrializzazione del territorio, risalente nella sua parte più antica alla seconda metà del XIX secolo, ha creato nell’immaginario collettivo dei polacchi (e non solo) l’idea di una regione tutt’altro che bella, dal paesaggio devastato, inquinato e desolato. In realtà anche l’Alta Slesia, al di là dei luoghi comuni, offre delle attrazioni turistiche e storico-naturalistiche degne di nota, ma di cui scriverò in altra sede. In questo articolo voglio invece attirare l’attenzione del lettore su di un elemento caratteristico del paessaggio urbano slesiano, diventato nel tempo uno dei simboli della regione stessa, il Familok.

Familoki

Addentrandosi nei centri abitati, oltre agli eleganti palazzi in stile liberty ed eclettico, testimonianza di un passato glorioso ed espressione della ricchezza dei proprietari delle miniere, si scorgono spesso schiere di casette in mattoni rossi. Esse sono degli edifici generalmente più bassi, spesso separati gli uni dagli altri, ma comunque costruiti vicini, in modo da costituire un vero e proprio quartiere a sè stante. Sembrano essere delle villette a schiera di un’altra epoca; sono tutti in mattoni rossi e spesso anche le finestre o il loro bordo sono dipinti dello stesso colore. Ecco, questi sono i Familoki, ovvero le case storiche dei minatori e delle loro famiglie. Il termine Familok è la variante slesiana di un termine che viene chiaramente dal latino; esso è fortemente radicato nell’immaginario collettivo di questa regione, tanto da essere diventato tematica linguistica, letteraria e musicale, insomma uno dei simboli della regione. Esso suscita ancora oggi dibattiti che spaziano dalla paesaggistica urbana ai contesti psicologico-sociali.

Una breve storia dei Familoki

Partendo dal termine stesso, Familok, possiamo intuire che si tratta di una struttura in cui abitano più famiglie. I primi Familoki risalgono agli anni Settanta del XIX secolo, mentre la maggior parte di essi vede la loro edificazione a cavallo tra i secoli XIX e XX, il periodo in cui la Slesia vide il suo maggior sviluppo industriale. Essi venivano costruiti vicino a delle miniere o degli stabilimenti siderurgici, uno accanto all’altro, in modo da costituire una sorta di colonia di famiglie di lavoratori che lavoravano nel complesso adiacente. Si trattava allora di un nuovo modello, in quanto fino a quel momento nelle vicinanze delle miniere erano esistite solo delle abitazioni riservate unicamente ai minatori, senza le loro famiglie al seguito. Ciò creava una certa stabilità psicologica nei lavoratori che grazie al contatto continuo e diretto con le loro famiglie acquistavano maggiore serenità, la quale si rifletteva in una migliore produttività lavorativa. Questa idea, realizzata da un pugno di industriali, risultò allora vincente: nel 1904 lo stesso governo prussiano emise una legge in cui il proprietario si doveva far obbligo di realizzare questi edifici per i propri dipendenti. Si trattò quindi di una vera e propria rivoluzione territoriale che avrebbe cambiato per sempre il paesaggio urbano della Slesia, ma che soprattuto ne modificò radicalmente il tessuto sociale e culturale. L’industriale che decideva di realizzare una colonia per le sue fabbriche era spesso visto come un mecenate; in alcuni casi si parlava addirittura di filantropia o di amore per l’arte, in quanto gli investitori realizzavano spesso veri e propri gioielli architettonici. In altri casi invece si trattava solo di garantire ai minatori un’abitazione quale che fosse, e in questo caso le condizioni di vita e le strutture architettoniche risultavano invece assai mediocri. Spesso infatti, si utilizzavano i progetti gratuiti messi a disposizione dallo stato prussiano, si costruiva in modo economico e per questo oggi la maggior parte dei familoki è in gran parte uguale. La disposizione a schiera delle case creava ai loro lati delle vere e proprie vie, mentre la chiusura spesso a quadrato dell’isolato facilitava la creazione di uno spazio interno, il quale, oltre a garantire loro una zona di vita, rinforzava l’ideale sociale di unità di quel piccolo quartiere. Un esempio di questa scelta semplice ma efficace è Szopienice, oggi quartiere di Katowice, così come i quartieri edificati tra Chorzów e Ruda Śląska.

Familoki

Durante gli anni della Polonia Popolare andarono molto di moda i casermoni fatti di grandi pannelli (wielka płyta); molti minatori si trasferirono in questi appartamenti e abbandonarono i familoki. La propaganda politica del regime comunista faceva sembrare questo trasferimento come una promozione, un miglioramento del proprio standard di vita. Si ineggiava a questi palazzi, definendoli veri propri gioielli del socialismo reale. Invece, molti dei minatori che vi si erano trasferiti, dopo alcuni anni si pentirono della loro scelta. Gli appartamenti nei famigerati bloki erano anomimi e piccoli, i materiali con cui erano stati realizzati erano scadenti. Il numero delle famiglie che abitavano in un blok era numeroso, quindi i rapporti umani non erano più così calorosi come nei Familoki. Inoltre le famiglie che ancora risiedevano nei Familoki erano di solito quelle più disagiate e questo fattore contribuì a far diventare i quartieri dei luoghi malfamati, luogo comune attuale ancora oggi, anche se in realtà non è più così. Negli ultimi anni la costruzione di nuove strade e l’allargamento di quelle vecchie ha avuto come conseguenza l’abbattimento di molti familoki. È il prezzo che si paga per il progresso.

La vita nei Familoki.

Lo stile di vita dei familoki fa parte di un passato abbastanza recente. Si può facilmente intuire che le persone che vi abitavano avessero uno stile di vita assai specifico, si trattava infatti di una comunità assai omogenea: praticamente tutti gli uomini lavoravano nella vicina fabbrica o miniera a cui le abitazioni appartenevano. Il ritmo di vita delle famiglie era praticamente identico per tutto il vicinato: tutti partecipavano alla messa nella chiesa più vicina, alle feste del paese, a quelle legate alla miniera. Questa omogeneità si ripeteva anche nella provenienza dei minatori poiché la maggior parte di essi erano persone che venivano dalle campagne vicine, avevano una parlata molto simile se non identica, così come la cucina. L’omogeneità dello stile di vita coinvolgeva anche le donne, le quali dividevano con le loro vicine di casa la preparazione del pane, la pulizia dell’androne e delle scale. Questo modello sarebbe cambiato durante il regime comunista, quando vennero fatti arrivare lavoratori da tutta la Polonia.

Le singole abitazioni nei Familoki erano normalmente costituite da una cucina molto grande e da una stanza. L’obbligo delle autorità prussiane era quello di dotarli di acqua corrente e di bagni, motivo per cui i familoki più vecchi possedevano dei lavandini in comune nell’androne e spesso i bagni si trovavano ancora nel cortile. Nei familoki del XX secolo l’acqua corrente era già nelle cucine, mentre il bagno era ancora in comune, ma nel corridoio. Dopo la II guerra mondiale vennero introdotti i bagni in ogni abitazione, spesso ricavati dal ridimensionamento delle grandi cucine. I gruppi di familoki più ricchi possedevano anche dei piccoli magazzini e a volte persino dei forni per il pane (piekarnioki). Ad oggi se ne sono conservati solo alcuni che sono sotto tutela pubblica in quanto considerati testimonianza dell’architettura industriale.

I familoki come uno status simbol

Oggi i familoki sono visti come un simbolo dalle due facce: per gli slesiani sono il simbolo dell’orgoglio dell’unicità della loro regione e della stretta appartenenza a quest’ultima; in essi si riflette inoltre il legame storico verso la famiglia. Spesso, dopo l’abbandono del familok verso una vita dalle condizioni migliori, compare una sorta di nostalgia per il locus amoenus. Per molti polacchi provenienti da altre regioni invece, spesso il familok è invece visto come il simbolo della decadenza dell’industria pesante e di quella estrattiva del carbone e di conseguenza della Slesia stessa, della patologia sociale che in questa regione regna da alcuni anni, creata dalla forte collettivizzazione imposta dal regime prima e dalla successiva liquidazione di molte fabbriche e miniere poi.

Tutto ciò ha portato delusione morale e povertà, ma anche critiche verso la classe dei minatori che ancora oggi viene tutelata dal punto di vista sindacale, ottenendo ancora molti privilegi da parte dello Stato.

I quartieri costituiti da familoki sono spesso considerati zone malfamate, dove la percentuale di disoccupazione e criminilità risulta più alta che negli altri quartieri. Il familok si associa ad una sorta di “comune”, dove lo stato tecnico delle abitazioni è pessimo, e anche a una sorta di degrado e mancanza di ammodernamento. Qualcosa comunque sta cambiando: un passo importante sembra essere stato il riconoscimento da parte dello stato del valore storico-artistico di questi quartieri operai. Alcuni di essi, come il quartiere Nikiszowiec a Katowice, progettati in modo originale e unici nel loro genere sono stati inseriti nella lista dei monumenti nazionali, altri sono protetti dalle belle arti locali, e molti altri ancora (ad esempio Radlin), sono stati soggetto di studi e pubblicazioni scientifiche.

Accanto ai cambiamenti riguardanti la loro concezione artistica, negli ultimi anni si è aggiunta anche una chiara voglia degli abitanti di rivitalizzare la vita sociale al loro interno. Esistono oggi associazioni di abitanti che puntano alla salvaguardia di questi quartieri, i quali allo stesso tempo stanno diventando meta di artisti. L’estetica specifica di queste costruzioni sta diventando il set per molti film o il soggetto di molti dipinti di artisti di strada. Con il passare del tempo il familok ha creato una propria mitologia di sè stesso e del suo ruolo.

Il familok come trasposizione letteraria e cinematografica

Il familok come elemento letterario viene celebrato da molti autori che ne fanno un simbolo di attaccamento al territorio. L’opera più famosa in cui viene celebrato il familok, è senza dubbio Cholonek oder der liebe Gott aus Lehm di Horst Eckert, in arte Janosch, uno scrittore di lingua tedesca che abitava in un familok di Zabrze. Vengono qui narrati la convivenza tra polacchi e tedeschi e i problemi che imperavano in questo strato sociale della Slesia: l’alcolismo, la violenza, l’ignoranza e l’ipocrisia cattolica, fino all’arrivo dell’Armata Rossa e la distruzione della Slesia. Lo stesso Janosch e la sua famiglia vennero cacciati e mandati in quello che restava della Germania. L’opera apparve in Polonia solo cinque anni dopo la prima pubblicazione e con molte censure. Nel 2004 la storia viene rappresentata al teatro Korez di Katowice. Per ironia della sorte, il familok di via Piekarska in cui visse Janosch non esiste più.

Alcuni giornalisti di Gazeta Wyborcza si adoperarono nel recuperare più mattoni possibile durante la sua distruzione. Dopo l’istituzione del premio letterario dedicato proprio a Janosch e che porta il nome di Cegła Janoscha (Il mattone di Janosch), ogni anno il vincitore dell’edizione, riceve in premio proprio uno dei mattoni del familok in cui Janosch abitava.

Familoki

Tra gli altri autori è doveroso citare Dorota Simonides, conosciuta professoressa universitaria ed attivista politica, la quale nel libro autobiografico dei suoi ricordi d’infanzia Szczęście z garści. Z Familoka w szeroki Świat (La felicità è nelle piccole cose. Dal Familok al grande mondo) racconta della sua giovinezza passata nel quartiere di Nikiszowiec. Nel libro l’autrice ripercorre la sua infanzia, narrando di come, nonostante il divieto dei genitori, si avventurasse con i compagni di giochi sulle montagne di carbone, e dei giochi inventati dai ragazzi tra i familoki durante le calde estati slesiane. Non mancano i momenti tristi, tra cui i frequenti assestamenti del terreno ferocemente trivellato dall’intervento umano e il conseguente panico nelle case, così come il funerale di un minatore, la cui morte era avvenuta nelle viscere della terra. Si trattava di un momento che coinvolgeva tutta la comunità, in quanto il minatore era morto mentre stava facendo del bene alla comunità stessa. Era una sorta di eroe locale a cui venivano attribuiti tutti gli onori. In Simonides, oltre alla nostalgia personale dell’autrice per quel mondo, emergono quegli elementi sociali di cui si è fatto cenno prima. In ultimo si può ancora citare Czarny Ogród di Małgorzata Szejnert, in cui l’autrice racconta i destini e la storia cruda di queste terre.

Il familok è protagonista anche nel cinema. Esso viene omaggiato dal film “Angelus” di Lech Majewski, in cui vengono narrate le vicende di un gruppo di artisti locali. Un altro regista e scrittore legato alla rappresentazione del familok è Kazimierz Kutz. Tra le sue molte realizzazioni bisogna ricordare il cosiddetto “trittico slesiano”, Sól ziemi czarnej (1969), Perła w koronie (1971) e Paciorki jednego różańca (1979), dove la realtà dei quartieri dei minatori viene magistralmente espressa con una profonda attenzione alla “slesianità”.  I primi due film vennero girati nei pressi della miniera “Wieczorek” di Nikiszowiec e in essi viene narrata la lotta dei minatori per i loro diritti. I concetti di miniera, lavoro, famiglia e case, ben radicati in Slesia, risultano qui pienamente espressi.

Nell’ultimo dei tre film citati, ambientato invece a Gisiowiec, si presenta il ritratto dell’agonia della Slesia. Le vecchie case di minatori vengono scalzate dai grattacieli che, a partire dagli anni Settanta, si moltiplicano rapidamente. In una di queste case abita Karol Habryka, pensionato ed uno degli insorti slesiani, fautori del passaggio di questa regione dalla Germania alla Polonia. La sua è una lotta per l’identità ed il patrimonio culturale di un’intero paese. In tutto ciò si intuisce una sorta di marginalizzazione della regione che da fiore all’occhiello del regime, venne poi abbandonata a sé stessa.

Ricordi slesiani

Dopo la presentazione generale dei familoki mi dedico alla parte per me più interessante, le esperienze dirette. Comincio così a fermare la gente per la strada e chiedere. In Slesia le persone hanno voglia di parlare, il ritmo non è frenetico e impietoso come a Varsavia.

Mi fermo a chiaccherare con la signora Danuta che mi racconta di Biadacz, un quartiere di familoki facente parte della città di Chorzów. – Dicono che il quartiere sia pericoloso. In parte è vero, ma le cose stanno cambiando. Quando io ero ragazza c’erano molti scippi, i bambini correvano a bande qua e là, tutti sporchi. Di loro nessuno si interessava, nemmeno le autorità. Crescevano nell’indifferenza e poi loro stessi sarebbero diventati indifferenti a tutto, fuorché alla birra. La delinquenza giovanile era all’ordine del giorno. Dopo la chiusura di molte miniere, qui quasi tutti erano disoccupati. I minatori prendevano sì un vitalizio, ma una miniera aveva anche uffici ed altro e tutto un retrovia di attività legate ad essa. Per chi non era minatore non rimaneva che la fame. Adesso a Katowice ed in altre città è nato il terziario, ci sono molti uffici, parecchie multinazionali. Mia figlia lavora in una di queste. Anche altri abitanti di questo quartiere hanno di nuovo un lavoro. Comunque non creda che fosse così male. Forse non ci crederà, ma i poveri qui si aiutavano tra loro e molti di loro lo fanno ancora oggi. C’era una sorta di tacita società di mutuo soccorso. Era un mondo chiuso al suo interno. Invece non c’era pietà per lo straniero. Questo ha senza dubbio alimentato il cattivo mito dei familoki. Da qualche parte c’è ancora la scritta: ‘Witaj w krajnie, gdzie obcy ginie’. (Benvenuto nella zona in cui lo straniero ci lascia la pelle). ‒ In effetti, quando in altri quartieri delle vicinanze chiedo di Biadacz, vedo dei sorrisi ironici, spesso alla mia domanda rispondono con un’altra domanda: ‒ Perché ci vuole andare? Non c’è niente là, è pericoloso ‒. Se si visita bene la zona si scopre che il Comune, e soprattutto gli abitanti del quartiere hanno dato vita a un programma di rivitalizzazione: c’è un parco giochi, i marciapiedi sono stati rifatti, qualche familok è stato persino restaurato, è comparso anche qualche supermercato. I bambini non sembrano più la copia polacca di quelli disperati dei romanzi di Dickens; finalmente hanno un posto dove giocare, come tutti gli altri.

Familoki

Marek abitava in un familok di Ruda Śląska. ‒ Non esiste più ‒ mi dice ‒ lo hanno abbattuto negli anni Ottanta, quando ancora c’erano i rossi. Il familok era uno scricchiolio continuo: camminavi e il pavimento scricchiolava, aprivi la porta e gli infissi scricchiolavano. Per non parlare delle scale. Sembrava sempre che il palazzo dovesse venire giù da un momento all’altro. I pavimenti erano così in pendenza che non si poteva versare troppa zuppa in un piatto. Mia madre quindi riempiva sempre il piatto fondo solo a metà, dicendo che eravamo una famiglia ricca, in quanto subito dopo ne avrei ricevuto un’altra porzione. Il punto di incontro per noi ragazzi era sotto la costruzione metallica che serviva per battere i panni, costantemente arrugginita e situata al centro del cortile. La parte dei familoki che affascinava di più noi bambini era invece la soffitta. A scuola si raccontavano storie orribili su questi posti. Ci entravamo solo per scommessa, chi fra noi fosse il più coraggioso. Mi ricordo che c’erano tonnellate di polvere che ricoprivano tutto: alcune koła (in slesiano biciclette n.d.a.) tedesche appese ai muri, delle vaschette di metallo, molte bottiglie di birra vuote e vari oggetti arrugginiti. La leggenda più comune era quella che avevano messo in giro i genitori perché noi bambini non andassimo a gironzolare in un luogo pericoloso: la soffitta era il regno del bebok, il terribile spirito slesiano che dimorava nel buio della soffitta e terrorizzava i bambini. Un’altra leggenda creata da noi ragazzi era quella del pazzo minatore: un ex minatore impazzito, che dopo anni di miniera non sopportava più la luce del sole e che viveva in una soffitta, da cui ogni tanto usciva per divorare qualche bambino. ‒ Forse il riflesso inconscio di qualche padre agressivo e spesso ubriaco, visto che la violenza in molte di queste famiglie era all’ordine del giorno. Marek conclude: ‒ Un mondo forse brutto, è vero, ma era sempre e comunque il mondo della mia infanzia e ora non c’è più ‒.

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Familoki 7 PoloniCultDecido di recarmi a Nikiszowiec, il più famoso e monumentale dei quartieri dei minatori, a pochi chilometri dal centro di Katowice per “disturbare” i suoi abitanti con la mia infinita sete di sapere. Il quartiere, realizzato a inizio secolo quando qui era ancora Germania, ha sempre goduto di una brutta fama. Arrivato, la mia sopresa è grande: il degrado è limitato ad alcune zone periferiche, mentre la piazza centrale è stata ristrutturata e lastricata. Vengo subito avvolto dal piacevole profumo di una panetteria, dalla quale non manco di portarmi via una bella pagnotta. Poi mi si presenta un piacevole ristorante con menù tipico polacco e tipico slesiano. Sotto i portici della piazza centrale si trovano delle caffetterie ammobiliate con mobili bianchi anni Sessanta, quelli che oggi vengono definiti modernariato. Ai tavolini siedono persone che sono venute apposta dal centro di Katowice o da altre parti della Polonia, per rilassarsi e godersi lo spettacolo di questo quartiere rimesso a nuovo. Sembra quasi, fatte le debite proporzioni, una versione slesiana e in miniatura della piazza del mercato di Cracovia. Le vie sono pulitissime, le mogli dei minatori addobbano i loro davanzali con fiori di differrenti colori, creando splendide composizioni. Spesso si affacciano a osservare la strada, si chiamano a vicenda, da finestra a finestra. Altre si recano lentamente nella grande chiesa che si staglia sulla piazza.. Alcuni bambini giocano a pallone sulla strada. Coppie di innamorati siedono sul marciapiede e aspettano l’autobus per il centro. A prima vista non si può dire che qui regnino la tristezza o lo sconforto sociale. Alcuni abitanti mi dicono comunque che, nonostante i grandi cambiamenti degli ultimi tempi ed i finanziamenti per abbellire il quartiere, sono ancora presenti molti altri problemi. La disoccupazione giovanile è forte e la mancanza di un centro culturale non indirizza i ragazzi verso scelte giuste.

Wiesław, minatore in pensione, mi informa che gli atti vandalici si succedono a ritmo sostenuto: –Bene restaurare leFamiloki case e salvare questo gioiello, ma se nessuno offre a questi ragazzi uno straccio di lavoro, non si devono poi sorprendere se per la noia o la disperazione, loro si mettono a devastare tutto. – In effetti i dati confermano che la componente sociale è formata all’85% da persone che non possiedono un’istruzione universitaria. Marek mi dice che spesso le opposte tifoserie di squadre slesiane amano incontrarsi qui di notte per darsele di santa ragione e che non sono mancati gli omicidi. – Durante il comunismo le squadre della Slesia, finanziate dai comunisti, erano molto forti, ora invece sono rimasti solo disagio e frustrazione ‒ conclude Marek. Eppure è proprio sotto queste arcate che nacque “Grupa janowska”, (quelli del film di Majewski), un gruppo di amanti dell’arte che da settant’anni si occupano di pittura amatoriale e dove i soggetti dipinti sono le famiglie di minatori, il quartiere e le miniere. Non sempre tutto è bianco o nero, anche a Nikiszowiec esistono le sfumature.

Passeggiando tra queste casette in mattoni rossi e le vecchie fabbriche adiacenti, mi viene in mente che ogni edificio ha una sua storia, fatta di gioie e di drammi ed accostando l’orecchio a questi muri rossi graffiati dal tempo, mi sembra di sentirli raccontare tante piccole storie che, raccolte tutte insieme, fanno la storia di questa regione, unica nel suo genere.

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