Szymborska. Un alfabeto del mondo

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Szymborska. Un alfabeto del mondo è l’ultima pubblicazione dedicata alla poetessa polacca. Un’opera attenta e meticolosa ma non solo per specialisti.

di Francesco Cabras

Perché Szymborska sia divenuta in Italia un vero e proprio fenomeno “pop” soprattutto a partire dal 1996, anno di conferimento del premio Nobel, è domanda a cui Luigi Marinelli tenta di rispondere nel saggio che chiude il volume di cui parliamo oggi: La fiera dei miracoli, ovvero Wisława Szymborska (e lo szymborskismo) in Italia. Le risposte che lo studioso ci offre sono, io credo, tutte riassumibili sotto l’etichetta calviniana di “leggerezza”, categoria che già il traduttore italiano della poetessa, Pietro Marchesani, aveva impiegato nella postfazione all’antologia da lui stesso curata Vista con granello di Sabbia (1998).

Forse il pubblico italiano era stanco di quell’amore “ormai un po’ logoro, dopo secoli e secoli di lirica amorosa in salsa petrarchista, operistica e canzonettistica” (p. 245), con le sue pretese di esclusività, irripetibilità, ineludibilità e magari anche tragicità che tanta parte della nostra tradizione poetica ha informato di sé; impossibile allora non lasciarsi conquistare dalla freschissima e controcorrente “relativizzazione” di tale sentimento qual è proposta in Amore a prima vista.

Quando Carlo Carabba, nel 2012, sul supplemento domenicale La lettura del  Corriere della Sera, polemizza, in occasione della pubblicazione dell’antologia Poeti dell’anno zero ( febbraio 2011, numero monografico della rivista L’illuminista a c. di V. Ostuni), contro le oscurità dell’avanguardia italiana, a suo dire “’modello negativo’ per i giovani poeti d’oggi, in quanto poesia oscura, difficile e quindi solo per un pubblico di iniziati, mentre ‘i versi della Szymborska hanno un pregio che spiazza e sorprende il lettore: si capiscono e, spesso, commuovono’” (p. 248); quando Carabba polemizza in questi termini, spiega un altro carattere, questa volta formale, della “leggerezza” szymborskiana, ovvero quello di un linguaggio intelligibile ai più perché diretto e semplice (non banale però, ed è questione su cui tornerò a breve).

Questa “leggerezza” contenutistica e formale è peraltro capitata in un frangente storico non particolarmente fortunato per il nostro Paese; forse un’Italia sempre più insicura, atomizzata e frantumata nelle proprie componenti sociali, ha trovato nei versi di Szymborska un messaggio ottimista, in qualche misura rassicurante e saldamente ancorato alla concretezza del vivere, a quella vita vissuta da ciascuno di noi e che tale poesia non smette mai di fare oggetto di riflessione, per la quale non smette mai d’incantarsi e stupirsi. E contrario, basti pensare alla scarsa fortuna presso il pubblico italiano dei versi – improntati a un severo moralismo – di un altro grandissimo della poesia polacca, Zbigniew Herbert (1924-1998), le cui poesie, uscite da Adelphi nel 1993 (Rapporto dalla città assediata) per le cure di P. Marchesani, vendono circa una decina di copie all’anno, laddove Szymborska all’anno ne vende ventimila di copie (e il numero è aumentato dopo il Nobel); le cose vanno un po’ meglio per Czesław Miłosz (1911-2004), premio Nobel 1980, ma comunque restiamo su cifre non paragonabili a quelle di Szymborska.

A fronte di una tale, insolita fortuna sortita da una poetessa in un mondo in cui di poesia se ne legge sempre meno – Marinelli (pp. 243-257) offre peraltro un’esaustiva rassegna del reimpiego, più o meno serio, che la cultura “pop” (Tobagi, Vecchioni, Jovanotti, Saviano) e finanche la politica (Elsa Fornero) hanno operato dei versi szymborskiani – stupisce che prima del volume che qui si recensisce non vi fosse in Italia un libro che inquadrasse complessivamente la poetessa e la sua opera.

Il volume di A. Ceccherelli, L. Marinelli e M. Piacentini è un libro che può essere definito senza esitazione una monografia, articolata in ventuno capitoli tematici (più una prefazione e il saggio conclusivo di Marinelli di cui ho già detto), ciascuno dei quali si apre con una poesia presa a “pretesto” per parlare di un singolo tema particolarmente significativo nell’universo poetico di Szymborska, uno per ogni lettera dell’alfabeto italiano (Amore, Biologia, Caso, Donna, Ecfrasi, Fugacità…). Ho parlato di monografia e non di raccolta di saggi per la presenza di una caratteristica fondamentale e non facile né scontata a trovarsi nei volumi a più mani, ovvero un amalgama assolutamente perfetto tra le varie parti del libro, frutto inequivocabile di una comune linea interpretativa di fondo nonché di un sapiente lavoro redazionale (utilissimi i rimandi interni ai singoli capitoli, per cui se un autore non ritiene di discutere approfonditamente un tema che nel contesto del proprio intervento è solo tangenzialmente rilevante, rimanda senz’altro alla voce curata da un altro autore).

Non si aspetti il lettore commenti puntuali, cioè parola per parola, alle poesie che aprono le singole voci (non era questa l’intenzione degli autori!); piuttosto si prepari a un affascinantissimo viaggio alla scoperta del retroterra culturale sotteso alle liriche di Szymborska, un viaggio condotto da tre filologi che applicano con mano sicura gli strumenti del loro mestiere (abbondante ed esaustiva la bibliografia critica citata e poi raccolta in fondo al volume) e che spesso conduce il lettore dinanzi a parallelismi insospettabili dietro l’apparente “leggerezza” dei versi szymborskiani: è il caso ad esempio del rapporto tra Amore a prima vista e Film Rosso di Krzysztof Kieślowski, che SzymborskaMarinelli indaga nel saggio d’apertura (pp. 3-16). Amore a prima vista, per quanto la parola “amore” compaia già nel titolo, non è affatto una poesia d’amore e forse, scrive Marinelli, nemmeno sull‘amore; con uno di quei paradossi cari all’autrice, questo è piuttosto un componimento che riflette sugli scherzi che il caso (concetto cardine della poetica szymborskiana e non a caso, mi si perdoni la ripetizione, continuamente richiamato da tutti e tre gli studiosi) gioca alle vite degli uomini; su quell’incontro assolutamente fortuito con la persona di cui ci s’innamora e che soltanto noi uomini (nel senso collettivo di “genere umano”), a posteriori, c’illudiamo sia in realtà segno d’un destino, ma che è in realtà nulla più d’un accidente pronto (eventualmente) a tramutarsi in destino. Va da sé che una simile impostazione distrugge in un sol colpo tutto il sovraccarico romantico sensu lato (o anche petrarchista, per richiamarmi alla categoria citata all’inizio) che ha caratterizzato la poesia d’amore per secoli e secoli in tutta la cultura occidentale. Detto ciò, come trascurare il ruolo capitale che il “caso” gioca nell’opera di Krzysztof Kieślowski? Quel caso che fa incontrare (o non incontrare) gli abitanti di uno stesso palazzo nei film di Dekalog; quel caso che fa incontrare i due protagonisti di Film Rosso; quel caso che ha orientato la scelta dello stesso Kieślowski di raccontare (nella trilogia dei colori) proprio la storia di quelle sei persone (tre coppie) e non di altri superstiti del naufragio nella Manica (il regista lo dichiara esplicitamente nel finale di Film Rosso). Lo stesso Kieślowski del resto, in un’intervista dichiarò quanto segue: “Amore a prima vista è una poesia che parla esattamente di Film Rosso […] la prova che due persone che non si conoscono, non hanno nulla a che fare l’una con l’altra, non hanno nessuna influenza reciproca sentono come importante nello stesso tempo una stessa cosa, pensano che la stessa cosa possa costituire l’oggetto di una poesia o di un film. Come questo succeda, non lo so” (p. 12).

Altre volte le “voci” che compongono il libro squadernano dinanzi al lettore notevoli spaccati di storia della cultura polacca, come quando nella voce Caso Marinelli analizza l’importanza che questo imprevedibile marionettista delle esistenze umane ha assunto dopo il “disgelo” del 1956 (fine delle illusioni in una Storia teleologicamente intesa, “controllabile” dall’Uomo e inequivocabilmente indirizzata al progresso) non solo nell’opera di Szymborska, ma anche in altri settori della vita culturale polacca. Ad esempio, scrive lo studioso che “la pittura  del periodo informel di Tadeusz Kantor degli anni 1956-63 nascerà […] da una simile tensione a cogliere la realtà (del quadro) nel suo farsi, senza un’idea preconcetta del suo esito” e poco oltre cita un’intervista all’artista in cui egli dichiara: “Il quadro era una registrazione, un segno dell’azione, e l’azione stessa suscitata dall’intervento del caso non era ad esso subordinata, bensì un modo di dominarlo, una consapevole ammissione del suo ruolo” (pp. 32-33). Risulta peraltro particolarmente suggestivo il fatto che Wisława Szymborska finì per innamorarsi e poi sposare lo scrittore Konrad Filipowicz, precedentemente legato a Maria Jarema (1908-1950), pittrice e co-fondatrice insieme a Kantor del Gruppo di Cracovia e del teatro Cricot 2.

Piacentini per parte sua, affrontando in Biologia il tema del rapporto tra l’Uomo e la Natura circostante e conseguentemente della possibilità di una comunicazione tra questo e quella, ovvero della possibilità per l’Uomo di comprendere la Natura stessa al di sotto dell’apparenza, quindi nella sua essenza, ricorda le suggestioni che la metafisica di Leibniz  ha esercitato sulla poetessa polacca: dinanzi all’interlocutore che in Conversazione con una pietra chiede insistentemente alla pietra di “lasciarlo entrare” dentro di sé perché viene a lei “[…] per pura curiosità./La vita è la sua unica occasione./Vorrei girare per il tuo palazzo,/e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua./Ho poco tempo per farlo,/La mia mortalità dovrebbe commuoverti” (GS: 177), la pietra risponde qualche verso più sotto: “Ti manca il senso del partecipare./Nessun senso ti sostituirà quello del partecipare./Anche una vista affilata fino all’onniveggenza/a nulla ti servirà senza il senso del partecipare” (GS: 179); la poesia si chiude poi con questo dialogo: “Busso alla porta della pietra./- Sono io, fammi entrare./- Non ho porta – dice la pietra” (GS: 179). Ora, una pietra siffatta presenta non pochi punti di contatto con la monade di Leibniz, secondo il quale “le monadi non hanno finestre attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire” (p. 21), mentre quel “Ti manca il senso del partecipare” pare alludere al concetto secondo cui natura non facit saltus (lett. “la natura non fa salti”), ovvero all’idea per cui non vi siano separazioni nette tra le varie forme di vita, tra animato e inanimato. Sul percorso di progressivo allontanamento (biologico ma soprattutto culturale) dell’Uomo dalla Natura, Szymborska rifletterà con particolare efficacia in Discorso all’ufficio oggetti smarriti (GS: 305). Ad ogni modo l’evoluzione dell’Uomo è un fatto del tutto casuale – ancora una volta il caso! – seppure non insignificante e non ne giustifica alcuna presunzione di superiorità rispetto alle altre creature (basta leggere la già citata Conversazione con una pietra per rendersi conto dello scorno dell'”io” interlocutore umano per non essere riuscito a “penetrare” i segreti della pietra). Del resto, come ha ben rilevato Andrea Ceccherelli nella voce Ecfrasi, l’evoluzione dell’uomo è valutata molto negativamente in una poesia come Le due scimmie di Bruegel: l’io poetico s’immagina interrogato in “storia dell’uomo” all’esame di maturità. Balbetta, arranca, mentre delle due scimmie del quadro in questione “Una […] osserva ironica la scena,/ l’altra sembra appisolata -/e quando alla domanda resto ammutolita,/mi suggerisce/col quieto tintinnio della catena” (GS: 75). È, quella che abbiamo letto, l’abiura convinta ad una visione del mondo che aveva caratterizzato le due precedenti raccolte poetiche di Szymborska (Per questo viviamo, 1952 e Domande poste a me stessa, 1954), raccolte disconosciute e mai più ripubblicate dalla poetessa, che a proposito della propria adesione al cosiddetto “Realismo socialista” e più in generale al comunismo, ebbe a dire: “Appartengo a una generazione che ha creduto. Io ho creduto. E quando ho smesso di credere, ho smesso di scrivere poesie di quel tipo… Eseguivo i miei ‘compiti in versi’ convinta di fare bene. È l’esperienza peggiore della mia vita” (p. 32). L’abiura, dicevamo, ad un teleologismo che voleva l’umanità istradata inesorabilmente su un cammino lastricato di progresso, verso la realizzazione di un mondo nuovo che l’avrebbe resa felice; un mondo recisamente negato da quel tintinnio di catene, quasi che le scimmie (da cui l’uomo discende e quindi metafora del nostro simile, dell’uomo incatenato e soccombente alla civilizzazione del più forte) stiano lì a suggerire beffardamente all’interrogata in difficoltà che la storia dell’Uomo è nient’altro che storia di sopraffazioni.

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La poesia di Szymborska oscilla costantemente tra due poli, quello della “disperazione” (ovvero della consapevolezza dell’esistenza del male) e quello dell'”incanto”, del perpetuo stupore di fronte al circostante. Credo l’episodio di Conversazione con una pietra (scacco dell’uomo di fronte alla Natura, con la quale non sa più comunicare) ma ancor di più quello de Le due scimmie di Bruegel siano degni rappresentanti del primo polo, mentre per quanto riguarda il secondo, quello dell'”incanto”, sarà bene partire da Allegro ma non troppo (GS: 315): “Sei bella – dico alla vita -/ […]./Cerco di accattivarmela,/di blandirla, vezzeggiarla./[…]./Le taglio la strada da sinistra,/le taglio la strada da destra,/e mi innalzo nell’incanto/e cado per lo stupore”. Questo testo ci permette di chiarire fin da subito un concetto fondamentale per comprendere la poesia di Szymborska: la sua non è una poesia metafisica, bensì profondamente radicata nell’hic et nunc, nella concretezza del vivere; non le appartiene assolutamente la dimensione sciamanica che pure era caratteristica di Miłosz; l’esistenza per Szymborska non va, non verrà riscattata in una dimensione metafisica, né è necessario postulare tale dimensione per apprezzarne la bellezza. La vita si giustifica di per se stessa, è già degna d’essere vissuta, nonostante le sofferenze che comporta e il prodigio maggiore è quello che si vede, non quello nascosto (La fiera dei miracoli, GS: 485: “Un miracolo, basta guardarsi intorno:/il mondo onnipresente”. L’ateismo della poetessa avrà sicuramente influito su queste posizioni, eppure Marinelli aggiunge una chiosa interessante a tale considerazione (p. 96): “[…] mi pare si possa dire che – in un modo tutto suo,  grazie alla fortissima dimensione etica laica – la poesia di Szymborska risulti profondamente religiosa perché – proprio attraverso quel suo ‘disperato incanto’, e pienamente consapevole com’è anche del male e delle brutture del mondo […] cerca una chiave per ricucire, […] ‘ri-legare’ (religio), ri-unire chaos e chosmos sotto un unico cielo: il nostro”. Del resto, il 7 dicembre 1996 a Stoccolma, quando le fu consegnato il premio Nobel, ebbe a dire le seguenti parole: “[…] questo mondo è stupefacente […] il nostro stupore esiste di per se stesso e non deriva da paragoni con alcunché. D’accordo, nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini: ‘mondo normale’, ‘vita normale’, ‘normale corso delle cose’… Tuttavia nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale” (p. 100).

Questo sguardo “incantato” sul mondo è insieme causa ed effetto di un socratico “sapere di non sapere”, rigorosamente antidogmatico, “democratico” e tollerante, un nie wiem [non so] che permette all’autrice di accettare la vita con serenità, disinnescando il pathos (magari anche potenzialmente distruttivo) di certe situazioni. Riprendiamo solo per un attimo quanto detto a proposito di Amore a prima vista e integriamolo ora con questi versi di Un amore felice (GS: 335, corsivo mio): “E a me è capitato di esserti accanto./E davvero non vedo in questo nulla/di ordinario”. Ecco un’ulteriore applicazione di quella “de-romanticizzazione” dell’amore di cui si è detto e che al contempo è anche un nie wiem, un socratico “non so” di fronte all’affinità che ha potuto tenere legate due persone, al caso (non mai al destino di stampo romantico) che le ha fatte incontrare.

S’è discusso fin qui soprattutto di aspetti contenutistici, ma v’è anche un aspetto formale che determina la “leggerezza” della poesia szymborskiana; come nel caso dei contenuti però, dove a una patina di apparente semplicità corrisponde un retroterra di seria elaborazione intellettuale, anche per quanto riguarda le questioni linguistico-stilistiche opera una castiglionesca “sprezzatura”, che nasconde a una lettura cursoria il lavoro di cesello sotteso alle varie poesie. La voce Lingua firmata da Andrea Ceccherelli è in questo caso particolarmente utile: la lingua della poetessa è “chiara”, comune, senza particolari inarcature; questa medietas è però riscattata e innalzata per altre vie: 1) attraverso il superamento della norma linguistica (soprattutto a livello grammaticale e lessicale, anche attraverso ripetizioni, scardinamento dell’ordine normale della frase o forzature sintattiche); 2) attraverso il superamento dei cliché di pensiero, anche grazie alla deautomatizzazione del linguaggio, ad es. in Le tre parole più strane (GS: 577), in cui “Futuro”, “Silenzio” e “Niente” di fatto smettono di designare il proprio referente nell’attimo stesso in cui vengono pronunciate: “il futuro diventa passato […] il silenzio viene distrutto, il niente diventa qualcosa” (p. 113); 3) attraverso il superamento della letteralità dell’enunciato, ad esempio delessicalizzando i fraseologismi come in Allegro ma non troppo (GS: 315): “Quanto è […] di bosco questo frutto”. Anche il tasso di “letterarietà” della poesia di Szymborska è sostanzialmente medio, poco esposto e fa appello alla memoria di un lettore non necessariamente “letterato”. Nella voce Tradizione (pp. 201-210) Piacentini allinea dei parallelismi (o suggestioni) che sono (dovrebbero essere) bagaglio culturale scontato in un polacco che abbia compiuto il ciclo d’istruzione superiore e mi riferisco alla presenza di Romantyczność, poesia – manifesto del romanticismo polacco uscita dalla penna di Adam Mickiewicz, alla fraszka [III 76] di Jan Kochanowski, Człowiek boże igrzysko [Uomo, trastullo di Dio] o dell’Inno dello stesso autore [Czego chcesz od nas, Panie, za twe hojne dary…? Che vuoi da noi, Signore, per i tuoi ricchi doni…?]; allo Julian Tuwim de La locomotiva, poesia straordinaria in cui il poeta, con un vero colpo di genio, ha scovato un’onomatopea che in polacco ha anche un significato di senso compiuto ( tak to to, tak to to, qualcosa di simile a “sì, così ecco…”), sì da “dire” qualcosa di grammaticalmente sensato e al contempo mimare la partenza del treno, poesia ripresa da Szymborska in Ancora (GS: 77), dove descrive il viaggio d’un treno carico di deportati ebrei (Tak to tak, che Piacentini, p. 204, cita in italiano da una versione di Andrea Ceccherelli: “Tocca a te, batte la ruota. Selva fitta./Tocca a te…); a volte infine capita che Szymborska ricorra a miti della classicità, come quello di Cassandra, che in Monologo per Cassandra (GS: 215-217) diviene metafora della vita sciupata. Non è infine casuale la presenza di un poeta come Jan Kochanowski, più volte richiamato dagli autori, tra i numi tutelari della poesia szymborskiana: se l’esperienza dell’avanguardia, con i suoi giochi verbali, il gusto del paradosso e dell’arguto (comunque ben radicato nella tradizione polacca, basti in questo caso ricordare il trattato De acuto et aguto del gesuita Maciej Kazimierz Sarbiewski, personalità di spicco del primo barocco polacco, incoronato poeta da papa Urbano VIII), la misura è senz’altro classica, così come quella concezione del mondo fatta di serena accettazione del circostante che tuttavia non oblitera il male è assolutamente “rinascimentale”. Basti in questo senso ricordare al lettore italiano la complessa figura dell’Ariosto.

Roberto Galaverni (Bremer-Tomassucci 2016: 93-103) ha accostato con validi argomenti la poesia di Szymborska a quella dell’ultimo Montale (da Satura al Quaderno di quattro anni): ironia, contraddizione, reversibilità concettuale, argomentazione, modi discorsivi e colloquiali, gusto del paradosso e critica dei luoghi comuni, sono tutti elementi effettivamente condivisi dai due poeti.

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A me la poesia di Szymborska, se vogliamo trovare alcuni paralleli con la nostra tradizione novecentesca, fa però piuttosto pensare a Saba, a cominciare da quel linguaggio “rasoterra” (è una splendida autodefinizione del poeta stesso) che ne caratterizza i versi: una medietas costantemente ricercata, una lingua semplice, facilmente comprensibile, che rifugge ad esempio la preoccupazione montaliana dell’esatta nominazione delle cose, preoccupazione che spesso (soprattutto nel periodo antecedente a Satura) lo porta a un abbondante uso di tecnicismi, molte volte rari e “difficili”. Una lingua, quella di Saba, che però è al contempo consapevole che la “semplicità” non significa affatto “facilità” o trascuratezza se il poeta stesso finirà per definire la rima fiore:amore (Trieste, 12-13) “la più antica, difficile del mondo”. Allo stesso modo, suggerisce un accostamento a Szymborska anche la sostanziale difficoltà di inquadrare Saba in una determinata corrente letteraria: lontano dall’espressionismo Vociano (a differenza di Montale nel periodo che va dagli Ossi alla Bufera compresa, che lo assorbì e lo reimpiegò con maggiore bravura dei vociani stessi), lontano dal detestato futurismo, di cui nei suoi versi non si trova traccia; profondamente radicato in una tradizione che ha i suoi punti di riferimento in Petrarca e Leopardi e soprattutto che emerge, nei suoi versi, con carattere, anche qui, “medio”: è un rapporto con la tradizione letteraria simile a quello di Szymborska, privo di particolari inarcature e oscurità. Ancora: Saba è un poeta legatissimo alla vita e basta leggere Trieste, poesia che s’apre in maniera “rasoterra, orizzontale”, poco marcata ovvero narrativamente, con il tema della passeggiata, diffuso nella letteratura di inizio secolo (Joyce, Palazzeschi…). Eppure quanta distanza tra Saba e (ad esempio) il Mann di Tonio Kröger: l’intellettuale Saba non è escluso dalla “calda vita” anzi, Trieste ha “il cantuccio a me fatto”, lo accoglie in sé. È lo stesso stupore, la stessa meraviglia di Szymborska quella che ritroviamo in Saba; una meraviglia per la quotidianità che riesce a innalzare il proprio oggetto a vette di vera e propria epicità (e non la chiama quindi in causa per sottolineare il cozzo dell’aulico con il quotidiano, come accadeva ad esempio nei crepuscolari). Si pensi alle magnifiche poesiole per il gioco del calcio dove, con movenza addirittura omerica il portiere cade “alla difesa ultima vana” nel tentativo di evitare il goal; si pensi poi, ancora una volta, a Trieste, che si chiude con uno schiva e pensosa, dittologia petrarchesca (RVF CLXXVII 8: “Liete e pensose, innamorate e sole”) e vagamente leopardiana (cfr. A Silvia). E poi ancora: Trieste parte da una movenza colloquiale, “rasoterra”, per poi innalzarsi fino ad arrivare alla chiusa petrarchesco-leopardiana di cui si è appena detto. È qualcosa di molto simile a quanto leggiamo in Metafisica (GS: 735), dove a un attacco smaccatamente colloquiale, było, minęło, tradotto da Marchesani con “È stato, è passato”, ma che è un fraseologismo corrispondente al nostro “quel che è stato è stato”, segue una serissima riflessione sullo scorrere del tempo; riflessione che paradossalmente si chiude nel modo seguente, quasi a smentire il titolo Metafisica: […] qualcosa è stato davvero, / finché non è passato, / persino il fatto / che oggi hai mangiato gnocchi con i ciccioli”. Come già si è detto, Szymborska non è un poeta metafisico; il suo mondo è immanente, è “qui e ora” ed è questo mondo che nella sua poesia nobilita ed esalta. Molto simile a Saba, dicevo: qui il processo di nobilitazione non si realizza attraverso un’ascesa stilistica, ma emerge piuttosto per via contenutistica. Una riflessione sul tempo incastonata tra due frammenti di quotidianità: un fraseologismo trito e ritrito, gli gnocchi con i ciccioli.

Il lettore desideroso di farlo potrà trovare altre innumerevoli suggestioni all’interno di questo libro, scritto davvero con “leggerezza” e talvolta persino ironia szymborskiane, agile e accessibile ma al contempo rigorosamente scientifico e “profondo”, nel suo proporre al lettore curioso infiniti percorsi d’approfondimento, spunti di riflessione, interpretazioni forse inattese eppure così calzanti, interferenze con altre letterature…

C’è solo da augurarsi che Wisława Szymborska non resti l’unico autore polacco a beneficiare di simili ottime monografie in italiano.

Bibliografia di riferimento:

A. Ceccherelli, L. Marinelli, M.Piacentini, Szymborska. Un alfabeto del mondo Donzelli, Roma, 2016.

Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009) (traduzione e cura di P. Marchesani), Adelphi, Milano, 2009.

V. Coletti, Storia dell’italiano letterario, Einaudi, Torino, 1993.

P. V. Mengaldo, Storia della lingua italiana. Il Novecento, Il Mulino, Bologna, 1994.

P. V. Mengaldo, Attraverso la poesia italiana. Analisi di testi esemplari, Carocci, Roma, 2008.

Bremer D., Tomassucci G., Szymborska, la gioia di leggere, Pisa University Press, Pisa, 2016.

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