Pensiero matematico, pensiero estetico

pensiero

Il pensiero filosofico in Polonia era ed è fertile e vivo, e non solo appaltato alla letteratura come spesso si ritiene.

di Roberto Reale

La storia della Polonia nel XX secolo è una storia maltrattata; non meno maltrattata è la storia del suo pensiero. Maltrattata perché divulgata, soprattutto all’estero, in una forma frammentaria che non serve certo a rivendicarne il valore. E però va detto, fin da subito, che il pensiero filosofico della Polonia contemporanea non ebbe soltanto una funzione vitale di mediazione e sintesi delle tante istanze che hanno attraversato la riflessione europea nel corso del secolo, ma seppe produrre risultati di originalità assoluta.

Qui proveremo a ripercorrere, in estrema sintesi, la storia di quel pensiero, concentrandoci su alcune figure che ebbero ruolo emblematico e che potremo magari approfondire in contributi successivi. Innanzitutto dobbiamo ricordarci che la Polonia fu matrice di due tra le maggiori correnti di pensiero matematico del ‘900: la scuola di logica di Leopoli-Varsavia (Szkoła lwowsko-warszawska), fondata da Kazimierz Twardowski al “tornar del secolo”, e la scuola di Varsavia. Quest’ultima concentrò i suoi sforzi sulla costruzione di strumenti cruciali (logica, teoria degli insiemi, topologia) per la matematica contemporanea; ma la prima, a cui appartenne Alfred Tarski, non volle limitarsi a contributi di carattere specialistico, estendendo invece la sua indagine a campi diversi della conoscenza, dalla psicologia all’estetica. Furono gettati i primi semi di quell’intrecciarsi tra pensiero formale e pensiero fenomenologico, di quel radicamento nell’ontologia che attraversò poi tutti gli sviluppi successivi del pensiero. Si va in direzione opposta a quel definitivo «La scienza non pensa» di Heidegger, che interpretato (a torto o a ragione) come una presa di distanza dal pensiero scientifico dai discepoli tedeschi ed italiani, marcò in modo nettissimo un distacco tra il mondo scientifico e quello umanistico.

Ma la Polonia non conosce questa frattura. Parecchi dei suoi filosofi del XX secolo sono matematici, e viceversa. Agli antipodi dunque di un Croce, di un Gentile i quali, tanto per fare un confronto con l’impostazione italiana, non avevano in alto concetto il pensiero scientifico, e matematico in particolare; verosimilmente perché ne ignoravano le ragioni. Veramente questa connessione tra pensiero logico-formale e riflessione filosofico-estetica è prodotto originale dello spirito polacco, che risale forse alle grandi figure rinascimentali: è indubbia comunque la tendenza a cercare sempre istanze di formalizzazione in campi diversi dalla logica pura, e dall’altro la disponibilità a riconoscere piena validità di attività culturale (nel senso anche sociale dell’antropologia) al pensiero matematico.

Ingarden pensieroSi diceva di Twardowski, matematico e filosofo. Con lui studiò tra le due guerre, appunto a Leopoli che era allora terra polacca, Roman Ingarden. La figura di Ingarden non ha bisogno di presentazioni anche fuori dalla Polonia, tanto nota è la sua produzione negli ambiti dell’estetica e della critica letteraria. Tuttavia ridurre a questi due campi l’immenso contributo che egli offrì al pensiero europeo significa, ancora una volta, scegliere una chiave di lettura frammentaria e fuorviante. In questo Ingarden condivide il destino di molti polacchi noti all’estero; e anche nella scelta di scrivere in una lingua diversa dalla materna. Soltanto che, a differenza di tanti altri, il suo fu un percorso di ritorno al polacco: infatti dal tedesco della tesi di dottorato (Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, del ’17) e dei primi, fondamentali saggi (Das literarische Kunstwerk, del ’31) egli si riapproprierà della sua lingua durante l’ultima guerra, per un sentimento squisito di orgoglio nazionale, e ritraducendo o riscrivendo poi in polacco anche molti dei lavori precedenti (O dziele literackim, pubblicato nel ’60).
Oltre che con Twardowski, Ingarden studiò a Gottinga con Husserl; ma dal maestro egli finì poi per distaccarsi, aderendo piuttosto al cosiddetto realismo fenomenologico, insieme ad altri i quali, pur senza formare una scuola nel senso proprio del termine si riunirono attorno ad un comune modo di intendere e diedero vita ad una vera e propria “primavera fenomenologica”. Ingarden non condivise la svolta dell’ultimo Husserl nel senso di un approfondimento dell’analisi intenzionale della coscienza (su questo si veda l’ottimo saggio Il realismo fenomenologico, a cura di Stefano Besoli e Luca Guidetti, pubblicato da Quodlibet); la sua fu invece una posizione di (crescente) rigoroso radicamento nell’ontologia. E si diceva che, se è vero che la parte della sua produzione all’estero più conosciuta (la sola anzi) è quella relativa alla critica letteraria, è anche vero che Ingarden scrisse tanto anche di metafisica, epistemologia, assiologia. È chiaro che dietro una così ampia varietà di interessi non si nasconde una tendenza alla dispersione, ma al contrario una profonda energia le cui sorgenti fanno ancora capo alla ricerca dei fondamenti del reale e delle possibilità di una loro formalizzazione. Anzi non è escluso che i lavori di estetica siano soltanto un corollario di questi interessi.

In ogni caso, la figura di Ingarden giganteggia così tanto che attraverso di lui (in risonanza o come reazione al suo lavoro) penetrano in Polonia istanze “esterne”, e in particolare strutturalismo e marxismo. Dove per quest’ultimo non si intende la fondazione economico-politica (confluita nel dibattito nazionale da molto prima) ma piuttosto quella sua declinazione in senso umanistico-critico che avrà nel genio di Lukács il suo nume tutelare. Anzi, ad essere più precisi, il marxismo diviene esso stesso terreno di coltura per lo strutturalismo.

Esiste infatti, e si svilupperà molto nel secondo dopoguerra, una interazione forte tra le due “narrazioni”, soprattutto sotto forma di esercizio critico da parte del pensiero strutturalista nei confronti della “lettura” e della metodologia del marxismo. Ne usciranno testi notevoli, come il saggio di Maria Janion, docente a Danzica e a Varsavia, sui rapporti tra strutturalismo e marxismo dal punto di vista di quest’ultimo (Humanistyka: poznanie i terapia, 1974).

Anche in seguito le due correnti, che negli stessi anni ma in altri contesti (come quello francese) tenderanno a divaricarsi parecchio, in Polonia non si perderanno mai di vista. La ragione di questo fenomeno va cercata verosimilmente nella ricchezza e nell’egemonia di un’eredità “nazionale” costituita da figure che entrambi i movimenti prenderanno come punto di riferimento: Ingarden appunto, ma anche Kazimierz Wóycicki, il fratello del celebre botanico Zygmunt: un pioniere tra gli storici della letteratura, morto l’anno prima della campagna di Polonia; e Manfred Kridl, professore prima a Vilnius e poi alla Columbia University. Kridl in particolare (ce ne parla Michał Głowiński in suo bel contribuito uscito di recente) guarda al formalismo russo e rifiuta di usare il dato biografico relativo agli autori, estrinseco anzi alieno all’opera d’arte. In questo egli è affine ad altri (come Zygmunt Łempicki, il germanista) i quali, pur non avendo rapporto con lo strutturalismo, ne condividono la critica radicale ai metodi positivistici. E giunge ad essere affine anche alla nostra critica di stampo crociano, pur muovendo da premesse del tutto diverse.

L’Introduzione di Kridl ai problemi e metodi della critica letteraria (Wstęp do badań nad dziełem literackim, uscita appunto a Vilnius nel ’36) è un po’, per importanza, il secondo manifesto dello strutturalismo in Polonia, dopo quei Saggi in onore di Kazimierz Wóycicki (Prace ofiarowane Kazimierzowi Wóycickiemu, 1936) che raccoglievano i contributi di molti degli studiosi interessati ai nuovi metodi oltre a quelli di Roman Jakobson e di Nikolaj Sergeevič Trubeckoj in persona (è ancora Głowiński che ci racconta del ruolo cruciale di quello scritto).

Ad ogni modo, prima della seconda guerra lo strutturalismo sembrava estremamente promettente, e andava raccogliendo ampia messe di consensi tra un’ampia schiera di giovani studiosi; ma purtroppo di questi ultimi moltissimi perirono nella tragedia bellica. Fu soltanto negli anni ’50 che si tentò di riprendere familiarità con la strumentazione critica costruita dalla generazione precedente.

Ma intanto erano usciti in Francia i lavori di Claude Lévi-Strauss, e sarà alla scuola francese che si guarderà ora con maggior attenzione, adottandone con entusiasmo l’impostazione legata alla linguistica formale e alla semiotica. Anzi, più ancora di quanto accada in Francia, la familiarità con la riflessione logico-matematico, quella corrente sotterranea che continua a vivificare nel profondo il dibattito filosofico ed estetico nazionale, spinge la Polonia ben oltre il resto d’Europa sulla strada di una formalizzazione estrema. Il lavoro Poetica e matematica (Poetyka i matematyka, 1965), curato da Maria Renata Mayenowa, fu sorprendemente un bestseller.

Perché si ricorre così tanto a metodi oggettivi, verificabili? Forse per timore di dar spazio al contributo soggettivo del critico: ossia proprio a quel contributo che per noi rappresenta forse l’elemento di maggior interesse e che dopotutto è difficilmente estirpabile del tutto. Ed è proprio questa la ragione per cui a noi, oggi, risulta difficile renderci conto di quanto “sacro valore” fosse connesso alla verificabilità formale della lettura di un testo. E tuttavia chi scelse di adottare gli strumenti della critica strutturalista ha lavorato con continuità per decenni e ha prodotto risultati di rilievo indubbio.

pszczolowska pensieroCome Lucylla Pszczołowska, scomparsa appena nel 2010, che applicò con successo i metodi dello strutturalismo non soltanto alla teoria della forma poetica ma anche agli studi comparatistici e alla filologia slava in senso lato.  Il suo libro Rima (Rym, 1972) resta una pietra miliare della critica letteraria contemporanea.
Mi rendo conto che l’approccio della Pszczołowska possa risultare indigesto al lettore italiano, benché anche in Italia non sia certo mancata una stagione strutturalista di spessore (si pensi a Cesare Segre, per esempio). Ma se uno vuol ritrovare una più “penetrabile” umanità e anche un certo afflato spirituale dovrà rivolgersi, tra i filosofi e i critici della Polonia del dopoguerra… a quelli di scuola marxista, per quanto paradossale possa sembrare.

E tra i marxisti uomo paradigmatico fu Leszek Kołakowski. Di lui tutti conosciamo la vasta Storia delle correnti del marxismo (Główne nurty marksizmu, uscito nel ’76); ma Kołakowski si interessò di tante altre cose. Tutta la sua vita fu una difesa appassionata delle ragioni di Kołakowski quell’umanesimo marxista di cui si diceva prima a propositokolakowski pensiero di Lukács, anzi forse la vastità degli interessi di più ancora di quanto accada per il collega ungherese tenta di abbracciare l’uomo tutto intero. Al di là delle formalizzazioni di stampo logico-matematico egli cerca non soltanto nello studio dell’espressione poetica ma anche nell’antropologia, nella storia del mito e nella storia delle religioni le strutture profonde e universali che rendono uomo l’uomo. Kołakowski è morto appena nel 2009; di quell’anno sono anche i suoi due ultimi scritti, uno sul sogno (Sen) e l’altro in cui egli, provocatoriamente, si chiede se poi Dio sia felice (Czy Pan Bóg jest szczęśliwy i inne pytania).

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