Di snobismi letterari e isterismi nazionali. Su Miłosz.

Milosz feature PoloniCult

Con Czesław Miłosz sulle tracce della sua Europa.

di Valentina Pozzati

È l’estate del 1931 e tre giovanissimi studenti universitari polacchi (che insieme non hanno più di sessant’anni), zaini in spalla, partono per un viaggio alla scoperta del “continente”. Fra i tre ce n’è uno che sembra incredibilmente giovane e porta in giro con dolorosa consapevolezza le proprie guance rotonde, da bambino. Sarà proprio lui, parecchi anni dopo, a ricordare come ogni automobile vista per le strade di quelle terre sconosciute fosse oggetto di continuo stupore: dalle loro parti, a Vilna, le auto allora erano una rarità. Gli studenti sono partiti in treno proprio da Vilna, dopo gli esami; arrivati a Praga comprano una canoa con la quale ridiscendono il Reno, fino ad arrivare a Parigi, sede della tanto agognata Esposizione Coloniale. Da veri uomini dell’Est – come ricorda quello che un tempo era stato il ragazzo con le guance da bambino – hanno una malattia chiamata “complesso dell’Occidente”: sono impazienti di conoscere paesi fatti di strade linde, prive dello sterco, la paglia e la sporcizia che invece ingombrano le strade della loro infanzia. Paesi in cui si respira un’atmosfera di allegria e leggerezza. La Baviera appare come un vero paradiso in terra: le persone sembrano spiritualmente superiori, le conversazioni sono più raffinate, i ragazzi sentono che perfino le leggi della fisica in quella terra straordinaria devono essere diverse. La discesa lungo il Reno, però, riserva una brutta sorpresa: l’urto contro una roccia apre una falla nella canoa, che si rovescia. I ragazzi, persi denaro e passaporti, sono costretti a raggiungere Basilea a piedi. Da Basilea entrano in Francia, quella che allora eraParis Milosz PoloniCult la patria della cultura europea, una vera sorella spirituale per chi proveniva da terre fin troppo ferite ed oltraggiate dalla storia per non cercare a tutti i costi altrove la bellezza e la salvezza. In Francia tutto l’Occidente si svela finalmente agli occhi dei tre giovani ma – come spesso accade – la realtà si rivela molto diversa dal sogno. Ad accoglierli non è la bellezza, ma piuttosto l’esclusione, non la salvezza, ma tutta la sofferenza umana. Il giovane Czesław – che all’epoca sembrava ancora indugiare nell’infanzia e che a distanza di anni sarebbe invece diventato il grande Czesław Miłosz, vergogna e maggior orgoglio della Polonia – di quel primo viaggio in Francia ha solo ricordi umilianti. Tra questi c’è un impietoso divieto d’ingresso per zingari, polacchi, rumeni e bulgari, poi ci sono interminabili fila di croci, la sola cosa rimasta dei caduti in guerra, ma soprattutto ci sono masse lacere di operai (soprattutto polacchi) alla ricerca di un lavoro. Pesante e praticamente non pagato, ovviamente.

Milosz Cover PoloniCult“Quando si è giovani, si imparare presto. Vedemmo subito cosa c’era dietro la facciata della patria della libertà e della rivoluzione”, scrive Miłosz, in La mia Europa “il prezzo della libertà può essere talvolta l’indifferenza per la sorte dei silenziosi e degli umiliati” (p. 196). Il futuro poeta scopre che non esiste una sola Europa, ma che ce ne sono addirittura due, molto diverse l’una dall’altra: da una parte ci sono le terre (come la Polonia) sfigurate dal dolore, e dall’altra c’è l’Europa che invece non trova spazio per i poveri ed i sofferenti, e di cui la Francia è solo un esempio. Da quel momento in poi nelle opere di Miłosz ritornerà sempre, costante, la contrapposizione tra Europa dell’Est ed “Occidente” – termine che nella sua ottica doveva indicare tutti i paesi schiavi del capitalismo, in cui l’umanità cede il passo alla logica dell’arricchimento e del conformismo. Inizialmente “Occidente” per lui era solo l’Europa occidentale conosciuta in quel viaggio da studente, ma successivamente questo termine arriverà ad indicare anche gli Stati Uniti, dove Miłosz vivrà per quasi un trentennio. E’ stato uno strano destino, quello di Miłosz: uno dei più grandi e prolifici poeti polacchi del Novecento è stato anche quello che ha vissuto meno di tutti in Polonia. Eppure, pur avendo passato gran parte della propria esistenza da esule, è rimasto comunque fino all’ultimo strettamente legato alla Polonia, perfino negli anni in cui la sua stessa patria lo rifiutava. Il mito dell’artista in esilio è ben noto alla cultura polacca: a cominciare dai romantici Mickiewicz e Słowacki, passando per Chopin (o meglio Szopen), e fino ad arrivare a Gombrowicz (ma questi sono solo pochi esempi tra i tanti). Però nessuno come Miłosz è stato allo stesso tempo respinto e attratto dalla propria patria. La sua odissea comincia nel momento in cui decide di recidere ogni legame col governo della Polonia Popolare (con il quale aveva collaborato per un periodo) e cerca asilo politico in Francia. Bollato come traditore dai propri compatrioti, il poeta è costretto a rimanere a Parigi per dieci anni prima di ottenere finalmente il visto che gli permetterà di raggiungere la propria famiglia a Berkeley. E proprio in California che Miłosz trascorre i successivi trent’anni della propria vita, insegnando all’Università di Berkeley e dedicandosi alla traduzione delle opere di svariati autori di lingua inglese, francese, spagnola, addirittura cinese e indiana. Eppure lui rifiuta di scrivere in lingue diverse dal polacco – in questo si distanzia moltissimo dall’amico Iosif Brodskij, altro esiliato in terra straniera – e continua a rimarcare la propria appartenenza alla Polonia. Alla radice di questo patriottismo “ad ogni costo” non c’era solo l’amore per la propria terra ma anche un certo snobismo di cui Miłosz stesso non fa mistero. Agli occhi del poeta le cicatrici del popolo polacco fanno male, ma sono anche motivo d’orgoglio. La sofferenza insegna i valori umani della compassione e della misericordia, valori che l’Occidente capitalista ha messo in ombra. Paesi quali la Francia o gli Stati Uniti – protesta Miłosz in La mia Europa – possono essere più efficaci ed ordinati rispetto alla Polonia, ma quest’ultima anche negli anni più oscuri ha conservato “un certo senso di compassione per gli inermi, e ciò grazie al suo passato caotico-liberale, grazie al cattolicesimo, e grazie al sordo rancore dei vecchi comunisti contro il boia che aveva assassinato i loro amati capi” (pp. 353-4). In fin dei conti, al di là delle sferzate della storia, i polacchi possono ritenersi più felici degli abitanti dell’Occidente: il fatto stesso di aver toccato il fondo ha procurato loro una conoscenza di ciò che è umano negata agli altri e soprattutto la certezza che il benessere economico procura una felicità soltanto illusoria. Ecco che allora la letteratura polacca può diventare un vero e proprio dono per l’Occidente peccatore (e infatti non è stato un caso se Miłosz con le proprie traduzioni ha imposto i più importanti poeti polacchi del Novecento all’attenzione dei lettori americani): attraverso le parole, poeti e scrittori polacchi possono comunicare “l’ardore che sostiene la fede nell’universale utilità del nostro sforzo individuale, anche se in apparenza esso non modifica nulla nei ferrei ingranaggi del mondo” (p. 355).

Per comprendere a fondo il legame viscerale, e allo stesso tempo conflittuale, di Miłosz con la Polonia e con il cosiddetto “Occidente” bisogna leggere il suo, La mia Europa, nella traduzione di Federica Bovoli uscito per Adelphi nel 2008.

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