La casa di Rosa, una storia bifronte.

La casa di Rosa 2 PoloniCult

Il romanzo La casa di Rosa di Hubert Klimko-Dobrzaniecki è una storia di corsi e ricorsi, tra la Polonia e l’Islanda.

di Salvatore Greco
 

Uscito nel 2007 grazie alla lungimiranza dell’editore Keller, La casa di Rosa è un romanzo passato ingiustamente inosservato come spesso accade anche ai migliori titoli della Polonia a scaffale prodotti da autori poco conosciuti, come nel caso di Hubert Klimko-Dobrzaniecki che ha firmato questa accattivante storia. Per altro in patria il giovane (classe 1977) Klimko-Dobrzaniecki non è affatto uno sconosciuto, è anzi un autore piuttosto apprezzato e proprio con La casa di Rosa è stato candidato al prestigioso premio Nike nel 2007.

La casa di Rosa coverGià solo prendendolo in mano La casa di Rosa è un libro che colpisce, il lettore che lo avvicina casualmente o accattivato da un qualche dettaglio e poco altro si trova sotto gli occhi un volume che sembra il prodotto difettoso di una stampa affrettata visto che non ha una quarta di copertina, ma la stessa copertina capovolta. E l’intuizione è facile a farsi confermare perché anche sfogliandolo si notano a un certo punto le pagine come rivolte al contrario.
Rassicurare i lettori è compito dei librai e (in parte) di noi svelatori di libri, non certo dell’autore e nemmeno dell’editore italiano (la versione polacca è più clemente) che non si curano affatto di svelare questo curioso appannamento di cui La casa di Rosa si fregia e che ne è un pregio prezioso. Non si tratta di un errore di stampa, ma di una scelta precisa e mirata. Le storie raccontate da questo romanzo sono due come sono due le case di Rosa in un ritorno di luoghi e situazioni ben espresso dall’incipit del libro, anzi da uno degli incipit:

Tutti hanno una seconda casa, subito dopo aver lasciato la prima. Le case nelle quali abitiamo, dal momento in cui usciamo a quando torniamo, sono diverse. Felici, orribili, fredde insignificanti, crudeli, grigie. Alcuni tornano a casa prematuramente. Si spengono da giovani, si suicidano, muoiono negli incidenti oppure si dissolvono come il fumo di una sigaretta, si volatilizzano nell’aria. Ci sono anche quelli che non vogliono tornare. Per tutta la vita accumulano intorno a sé delle cose. Figli, oggetti pregiati, denaro… Poi s interrogano ansiosi sulla fine che farà tutto questo, sul che ne sarà dei figli e delle cose […]

Le case, i luoghi e l’eterno ritorno degli stessi sono l’anima viva di questo romanzo vivace per quanto malinconico e profondamente polacco anche se ambientato dall’inizio alla fine (dagli inizi alle fini, anzi, ma ormai ci siamo capiti) in Islanda. Si può scegliere di iniziare dalla storia di un giovane emigrato polacco che vive a Reykjavik con la moglie e il figlio piccolo e lavora come infermiere in una casa di riposo che è il centro della sua vita. Non si fa mai il suo nome e quello della moglie esiste solo per identificarla, restano vividi invece i nomi di tutti i personaggi che abitano il colorato ospizio dove l’uomo lavora e che chiama ossessivamente “casa”, un luogo che include e ingloba la vita tutta e i cui ospiti vengono raccontati come in un catalogo degli eroi di omerica memoria. Per quanto di eroico e di omerico, in realtà, ci sia ben poco nella realtà amara e disumanizzante di una casa di riposo dove il cinismo necessario dei dipendenti si rispecchia nell’apatia impassibile degli ospiti, rassegnati -volenti o nolenti- a una vita privata della dignità e della capacità di un quotidiano che abbia anche solo una goccia di umano. Nella “casa” ogni spazio ha le sue regole e i suoi regolatori in una routine fatta anche di eventi crudeli oltre ogni limite e di spropositata assenza di moralità. Tutto tranne il Tetto, il piano più alto della struttura a cui al protagonista è negato l’accesso fino a quando non riesce a ottenere la cittadinanza islandese, criterio misteriosamente fondamentale per ricevere quella “promozione”. E gli abitanti del Tetto difatti non sono ospiti qualunque, non sono ospiti con i quali ci si può permettere di comportarsi come fossero oggetti o peggio e gli infermieri lo sanno e si adeguano, che si tratti di persone rispettate, ancora lucide o comunque provviste di una qual forma di dignità. Ed è il caso della signora Rosa, tanto dignitosa nella sua cecità che qualcuno chiama l’ospizio la casa di Rosa appunto e tanto che il protagonista chiama con il nome polacco Róża in un gesto apparentemente banale ma profondamente affettuoso e che cela il cuore dell’intera vicenda.

Iniziandolo dall’altra parte il libro è invece la storia di un uomo semplice di un paio di generazioni prima, un piccolo pescatore del villaggio di Krysuvik che vive la sua vita con una modestia tale da sprofondare nell’ingenuità e una linearità apparente per una buona parte della sua storia. Trova una donna, se ne innamora, fa con lei progetti e comincia a costruire la casa dove vivranno da sposati. Da quel matrimonio felice e lineare e in quella casa costruita piano, con dolcezza meticolosa, nasce la piccola Rosa che viene al mondo afflitta da una cecità congenita che è solo l’inizio di un rapido degradare delle cose…

Le due storie de La casa di Rosa provano a rincorrersi senza mai riuscirci, come facce di una luna pallida e malinconica, sono le due fasi di una stessa storia, ma sono anche storie separate. Klimko-Dobrzaniecki prende in mano con delicatezza un’atmosfera nordica nella sua ambivalenza di grande pace e profonda tragicità e la usa come palcoscenico di una piccola-grande riflessione sulle sorti della vita in cui la casa è un simbolo allegorico ma non solo e la morte la fa da padrona in un modo flemmatico e scandinavo.

In questa sede non si può tacere che la vicenda dell’emigrato finito a lavorare in una casa di riposo viene dall’esperienza personale dell’autore, ma come al solito l’eccesso di biografismo nella lettura di un’opera di fiction è un peccato veniale di cui non mi macchierò. Questo romanzo esiste nella sua forza narrativa senza che l’etichetta (per altro improbabile) di storia vera gli venga appiccicata addosso con molestia. Un romanzo costruito con sapienza nelle sue due anime (con la parte antica secondo me più riuscita e dal ritmo più brillante rispetto all’altra) separate ma bene accordate. Quale che sia l’ordine di lettura delle due vicende La casa di Rosa resta un romanzo godibilissimo, consigliato anche e soprattutto per chi teme i realia polacchi e invece ama le ambientazioni scandinave. L’augurio è che valga un credito, in futuro, per dare spazio alle gemme contemporanee della narrativa polacca.

 

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